“L’Occidente è una grande potenza che sta vivendo una vecchiaia rancorosa. Sono preoccupato per questa ostilità verso la Russia, l’islam sciita dell’Iran, la Turchia e la Cina.” E poi: “Nel suo (del PD) impianto culturale non c’è la critica al capitalismo, la capacità di vederne le contraddizioni, l’idea che il riformismo è la modernizzazione. Ma la modernizzazione senza qualità sociale e ambientale rivela una visione povera e subalterna.”
L’uso dell’intelligenza di D’Alema è speculare all’oligofrenia renziana: come Banca Mediolanum, costruisce il mondo attorno a sé. Solo in apparenza il suo ragionamento non fa una grinza: il mondo non ruota più attorno ai vecchi equilibri di potenza, ogni Nazione cerca legittimamente di costruirsi un suo spazio operativo e non tocca certo a noi stabilire un primato morale men che meno su contrapposizioni religiose. Da qui si deve sicuramente giungere a relazioni bilaterali improntate alla reciproca convenienza: ma ben altra cosa è stabilire questa dalemiana equidistanza fra USA e Cina, come sotto dettatura ha tentato di fare Conte nella sua relazione alla Camera dovendo fare pronta retromarcia appena presentatosi al Senato, complice l’insediamento di Biden, per tornare alla casella atlantica di partenza.
La seconda citazione riguarda il centenario della scissione di Livorno del 1921 da cui nacque il PCI di Gramsci e Bordiga staccandosi dal PSI riformista di Turati, fatto che precedette di un solo anno la Marcia su Roma dell’ex socialista massimalista Mussolini: da sempre la coincidenza temporale fra i due accadimenti che radicalizzarono drammaticamente la vita politica dell’Italia è stata oggetto di ripensamento, ma ciò invece di indurre in D’Alema una riflessione critica sulle conseguenze di quell’evento traumatico e da qui su democrazia, riformismo e solidarietà lo fa invece tornare in modo antistorico su di una improbabile palingenesi comunista: vero che proprio la Cina alla fine ha mostrato come un Partito Comunista, oltre che prendere il Potere, possa pure condurre un Paese fuori dalla povertà e dall’arretratezza, ma trattasi di mondo molto lontano dal nostro e, se proprio vogliamo andare di fioretto, avendo utilizzato strumenti iper-capitalistici, non certo con il definitivo conferimento al Popolo degli strumenti di produzione, come prescritto dai sacri testi.
La strategia dalemiana
Perché allora una persona di chiarissima intelligenza come D’Alema punta su di una sorta di equidistanza bilaterale negli equilibri internazionali secondo il modello di Trump e su di una chimerica rivoluzione minoritaria ed antidemocratica, visto che altro non può essere il superamento del capitalismo ipotizzato che di democrazia per sua convenienza si nutre?
La risposta è che in realtà si tratta di tattica: D’Alema, fallite tutte le opzioni possibili sul centrosinistra, cerca una nicchia e usa la retorica di cui è dotatissimo per costruirsela, non tanto perché creda possibile veramente che un nulla internazionale come l’Italia possa svegliarsi una mattina come il Giovin Signore pariniano e decidere con chi parlare oggi senza portare il peso del suo ancoraggio atlantico, ma perché russi, cinesi, turchi, iraniani (tutte Nazioni felicemente antidemocratiche) qualcuno che li rappresenti lo cercano di default, garantendogli una possibile rendita di posizione.
E così pure i palingenetici, quelli che nel 1921 si sarebbero comunque divisi anche sapendo come sarebbe andata a finire, i quali pensano che il mondo sia inemendabile senza rivoluzione, anche questi continuano ad esistere e cercano riferimenti di prestigio che li giustifichino nel loro rifiuto della realtà, ovvero quella cosa che se c’è ha ottimi motivi per esserlo: altra nicchia. Il D’Alema di oggi resta sostanzialmente il tattico per sé che ricordavo dalla mia gioventù: per rendere meno triste la pensione post-rottamazione va cercando sponsor e claque senza il gravoso obbligo alcuno di provare a governare il Paese.
(Foto: Wikimedia)