Perché questo articolo potrebbe interessarti? A Mellitah, dove ha sede lo stabilimento da cui si estrae il gas diretto in Italia, le attività sono state sospese a seguito dell’irruzione di alcuni manifestanti: “Non è la prima volta che succede una cosa del genere in Libia – dichiara su TrueNews la docente Michela Mercuri – e nel breve periodo non è un problema: il problema invece riguarda il lungo periodo per l’impossibilità di programmare investimenti nel Paese”.
La guerra in Libia non è mai finita. Anzi, la situazione nel Paese può dirsi anche peggiorata. Da alcuni giorni sono in corso proteste nel Fezzan, la regione meridionale, da parte di diversi gruppi di cittadini. Gente esasperata da un lato, a cui mancano i servizi basilari, ma anche gruppi che vogliono destabilizzare ulteriormente la situazione oppure ottenere qualcosa dalle proteste.
Non è un caso che la prima conseguenza delle manifestazioni ha riguardato lo stop alle attività dei giacimenti di gas e petrolio. Si è fermata l’estrazione a Sharara, sede del più grande giacimento, così come a Mellitah. Qui, in particolare, un gruppo identificato con il nome di “Movimento per lo sradicamento della corruzione” ha occupato le aree attorno lo stabilimento: “Da Mellitah – ricorda la docente e analista Michela Mercuri su TrueNews – parte il gas verso l’Italia”. Dunque, quanto sta accadendo in queste ore in Libia interessa da vicino il nostro Paese.
A rischio le forniture di gas dalla Libia?
Il primo pensiero, a proposito degli interessi relativi all’Italia, va alle forniture di energia che arrivano dal Paese nordafricano. Su questo punto, Michela Mercuri non crede possano esserci molti problemi: “A essere interrotta è stata l’attività nell’impianto di Mellitah, gestito dalla Noc (la società libica del gas e del petrolio, ndr) e dall’Eni – ha spiegato la docente – da qui parte il gas diretto verso la Sicilia, ma è bene ricordare che dalla Libia importiamo solo il 2% del nostro fabbisogno”.
Una cifra ben sostituibile nel breve periodo e che comunque non va a intaccare le esigenze dell’Italia in questa fase: “Non solo – ha poi proseguito Mercuri – ma possiamo dire che l’Eni è abituata a gestire questo genere di situazioni”. Non è infatti la prima volta che gli stabilimenti di Mellitah o di altre località della Libia vengono presi di mira da manifestanti, gruppi più o meno organizzati o milizie.
Le rassicurazioni dell’Eni
“L’Eni – ha ricordato Michela Mercuri – è abituata a queste liti tra milizie che spesso sorgono per rivendicare il proprio potere o per chiedere soldi al governo, con la società che si è sempre dimostrata in grado di gestire i momenti di maggior crisi per gli impianti”. La situazione dovrebbe quindi rientrare nei prossimi giorni.
Del resto, i precedenti parlano chiaro: quando nascono manifestazioni, a volte spontanee e a volte strumentalizzate, si prendono di mira gli stabilimenti per fare pressione sul governo o su determinate tribù che governano il territorio. Successivamente, la mediazione attuata tanto dalle stesse forze in campo quanto dalle società che operano negli impianti riesce a riportare la situazione alla normalità.
“L’Italia in questi contesti – ha poi proseguito la docente – parte da una situazione di vantaggio. L’Eni e altre importanti società operano in Libia da molti anni e hanno nel tempo sviluppato una rete di contatti con le tribù libiche. La dimostrazione è data dal fatto che proprio l’Eni è una delle poche società che, nonostante il caos successivo alla morte di Gheddafi, ha continuato a essere presente nel Paese”.
I pericoli nel lungo periodo
Se quindi sul fronte delle forniture e della risoluzione dei problemi dentro gli impianti non sembrano emergere grossi problemi, i dolori arrivano invece dal medio e lungo periodo: “È vero che importiamo il 2% del gas dalla Libia – ha infatti commentato Mercuri – ma potremmo anche importarne il 6 o l’8%, quantità importanti per un periodo come quello attuale”.
C’è quindi un problema legato alle potenzialità impossibili da sfruttare. L’instabilità libica non permette di pianificare a lungo termine, né di attuare tutti quegli investimenti in grado di aumentare l’importazione di gas e petrolio dal Paese nordafricano: “L’Eni – prosegue la docente – aveva puntato e sta puntando sulla Libia per affari importanti, voglio ricordare per esempio che nello scorso gennaio c’è stato un accordo tra la società italiana e la Noc dal valore di circa otto miliardi di Euro per lo sviluppo di giacimenti di gas in Libia, aumentando così le forniture per il mercato libico ma anche le forniture dirette in Europa”.
In un contesto contrassegnato dalla frammentazione del potere, dall’inesistenza di un vero e proprio Stato e da continui scontri tra milizie, oltre che dall’occupazione periodica degli stabilimenti da parte di gruppi di cittadini e non solo, è impossibile anche solo pensare a investimenti nel lungo periodo. Un problema per l’Italia, ma soprattutto per la stessa Libia. Il Paese è al collasso e il recente disastro di Derna ne è una dimostrazione: la città, spazzata via da un’alluvione a settembre, ha pianto oltre diecimila vittime per il collasso di due dighe. Due opere in cui da almeno un decennio, a causa dell’instabilità e della guerra, non veniva fatta manutenzione.
“Una maledizione calcolata”
Ma la Libia è destinata a rimanere per sempre in balia dell’instabilità? “Io direi – è la risposta di Michela Mercuri – che esiste una maledizione libica, ma è una maledizione in qualche modo calcolata”. Non si tratta cioè solo di una “semplice” riemersione del potere delle tribù dopo la caduta di Gheddafi ma, al contrario, si tratta di un fenomeno voluto.
“Ci sono diversi attori interni e internazionali a cui sta bene lo status quo – ha proseguito la docente – e che vogliono una Libia divisa e frammentata tra vari centri di potere, tra est e ovest. Lo stesso premier Ddeibah ha interesse a non far tenere elezioni che potrebbero defenestrarlo dal potere, mentre dal canto suo anche Haftar ha convenienza nel mantenere la sua presa sul territorio in Cirenaica”.
Poi per l’appunto, ci sono gli attori esterni anch’essi ben lieti di continuare con l’attuale status quo: “Ci sono diversi attori su questo fronte – prosegue Michela Mercuri – ci sono ad esempio i russi che hanno interesse a vedere una Libia ancora destabilizzata, anche per controllare, tramite l’alleato Haftar, i porosi confini con il Niger e con il Sahel, area dove hanno più di un piede con le loro forze paramilitari. A ovest c’è invece la Turchia, prima sostenitrice del governo di Tripoli e che da una Libia indebolita spera di poter trarre vantaggio conservando la sua influenza in diverse aree”.
Un vero e proprio mosaico in cui, sempre secondo la docente, unendo tutti i punti viene fuori uno scenario in cui ben si può comprendere come la Libia resterà destabilizzata e divisa per tanti anni ancora. Almeno fino a quando i tanti attori che hanno un ruolo nel Paese nordafricano vedranno come un vantaggio l’attuale instabilità.