Perché leggere questo articolo? Giorgetti è stato secondario sul Patto di Stabilità nel negoziato decisivo. E ha provato a metterci una pezza parlando per ultimo all’Eurogruppo. Simulando di aver messo lui la parola finale…
Giancarlo Giorgetti ha provato a metterci una pezza parlando per ultimo all’Eurogruppo del 20 dicembre come a suggellare che la parola dell’Italia era quella decisiva per la risoluzione dello stallo sul Patto di Stabilità. Altro, il titolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze non poteva fare: la trattativa sulla riforma delle regole europee di bilancio si è, nella sua fase decisiva, svolta sopra la testa dell’Italia e del ministro leghista.
Francia e Germania tagliano fuori l’Italia
L’asse decisivo è stato quello Berlino-Parigi-Madrid: via libera da parte della titolare spagnola dell’Economia e delle Finanze Nadia Calvino a una proposta di compromesso come presidente di turno dell’Eurogruppo, avanzamento della trattativa nella notte di Parigi tra il 19 e il 20 tra Bruno Le Maire e Christian Lindner. I due dioscuri di Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno trovato l’accordo franco-tedesco per sbloccare l’impasse. Parigi, da sola, ha trattato per le colombe chiedono più flessibilità, Berlino ha espresso la voce dei falchi. E questa è l’Europa, bellezza. Non possono dirsi soddisfatti, alla prova dei fatti, né Giorgetti né Giorgia Meloni. E non parliamo del fatto che l’esecutivo ha balenato l’idea che tirare la palla lunga sulla riforma del Mes potesse spuntare alcune concessioni negoziali.
La richiesta – legittima – di maggiore flessibilità, che l’Italia interpreta dai tempi di Giuseppe Conte e Mario Draghi, è stata presa in carico dalla Commissione Europea su pressione di Roma, Parigi e Madrid lo scorso anno. Ricordiamo che a novembre 2022 il governo Meloni, e Matteo Salvini in particolare, attaccarono il Commissario agli Affari Economici Paolo Gentiloni perché non avrebbe lavorato per una proposta di Patto di Stabilità favorevole all’Italia.
Un Patto con elementi di austerità
Ebbene, la versione che esce dalla trattativa al Consiglio Europeo è su certi punti di vista più austeritaria rispetto alle aspettative. In particolare, sulla scia dell’accordo Parigi-Berlino è stato rivisto al rialzo il valore percentuale in rapporto al Pil dell’aggiustamento strutturale richiesto ai Paesi che sforano il margine del 90% el rapporto debito Pil. Gli Stati in questione dovranno presentare ogni anno deficit non superiori all’1,5% del Pil e proporre un avanzo primario minimo dello 0,4% se concorderanno con la Commissione piani di rientro quadriennali dagli extra-debiti e dello 0,25% se li spalmeranno su più anni.
Il cosiddetto avanzo primario, lo ricordiamo, è la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito. Berlino ha spuntato dunque un ritorno all’austerità, temprato certamente dallo scorporo della spesa per interessi extra rispetto a quelli preventivati e degli investimenti in Difesa dal computo. Ma l’Italia non ha ottenuto lo scorporo degli investimenti green e digitali già proposto da Conte e Draghi e non concretizzato da Meloni.
“L’altra concessione a Berlino riguarda il margine di sforamento consentito ai Paesi: era dello 0,5% l’anno, ma si è deciso di scendere allo 0,3% (mentre lo sforamento che si potrà accumulare nell’intero periodo scende dallo 0,75% allo 0,6%)”, nota Marco Bresolin su La Stampa. Superata questa soglia, “la Commissione dovrà redigere un rapporto nel quale terrà conto dei fattori aggravanti (come il livello del debito del Paese in questione) e di quelli attenuanti (come le spese per la Difesa), dopodiché deciderà se aprire la procedura”.
Il dilemma italiano su Patto e Mes
Su queste partite Giorgetti non ha toccato palla. E su fronti come lo scorporo degli investimenti in Difesa notiamo come la politica determinante sia stata quella franco-tedesca. Ovvero quella di due Paesi alleati che hanno spese militari e sinergie industriali maggiori di quelle che Roma, la cui spesa militare è soprattutto diretta a stipendi e pensioni, non può mobilitare nella stessa dimensione.
All’Ecofin convocato in videoconferenza a Giorgetti non è rimasta altra scelta che prendere in mano quanto emerso dal dibattito e provare a capire come uscire dall’impasse. Il titolare del Mef, una settimana fa, parlava di possibilità di accordo al 50% e della prospettiva di un rinvio del dibattito sul Patto. L’esistenza di una proposta di accordo metteva fuori gioco quest’ultima possibilità e poneva come unica opzione di dissenso un veto. Senza il quale si sarebbe però tornati alla versione originale del Patto sospesa allo scoppio del Covid-19 e ormai anti-storica per la sua meccanicità sulle procedure d’infrazione. C’è stata, dunque, veramente poca scelta. A dare le carte sono sempre Francia e Germania.
L’Italia arriva a porre una firma in quanto Paese che la riforma del Patto mette sotto tutela per l’alto debito. Parigi, rompendo il fronte negoziale, ha del resto messo in soffitta per ora l’idea di un’agenzia europea del debito funzionale a “digerire” le passività create della pandemia. Per la cui strutturazione servirebbe però ammodernare un altro tabù del governo Meloni, il Mes. Il dibattito sulla cui riforma ha assorbito, nelle scorse settimane, risorse politiche che andavano invece spese in maniera più costruttiva sulla gestione della riforma del Patto di Stabilità, a cui l’Italia si è presentata come oggetto e non soggetto della trattativa nella sua fase decisiva.