Di Andrea Muratore e Federico Giuliani
Giuseppe Conte ha usato un filone narrativo preciso per giustificare la rottura tra il suo Movimento, orfano di Luigi Di Maio, e il governo Draghi. Il silenzio del premier e l’assenza di confronto sulle proposte politiche grilline sarebbero la pistola fumante per la rottura interna al governo.
I “silenzi” di Draghi
Per Conte, Draghi gestisce in forma verticale il potere e questo rischia di logorare l’agenda di governo e l’interlocuzione con le forze politiche. Il “metodo gesuita” di decidere e poi comunicare è stato a suo modo una piccola rivelazione. Anche considerato il fatto che “Draghi è abituato a gestire in questo modo le dinamiche di sua competenza” dicono fonti romane qualificate vicine agli ambienti governativi. “Basti vedere l’approccio tenuto nei confronti dei media. Molte conferenze stampa, in cui si comunicano provvedimenti concreti, poche interviste, che hanno un valore pratico molto minore”. Un tema su cui riflettere: il metodo Draghi sulla comunicazione contestato da Conte è certamente peculiare per una politica italiana iper-comunicativa.
Appena due interviste in 17 mesi. Da quando è diventato presidente del Consiglio, 13 febbraio 2021, ad oggi, Mario Draghi ha ridotto al minimo la comunicazione attraverso i media. Poco importa se il suo governo è finito nell’occhio del ciclone: il premier continua ad adottare il suo stile comunicativo. Uno stile molto particolare, fatto di conferenze stampa, affermazioni in luoghi istituzionali, risposte collettive al termine di eventi e poco altro. Come se non bastasse, nell’epoca dei social media, Draghi non è presente neppure sui principali social network.
Il paragone con gli altri leader europei
Il paragone con gli altri leader europei è senza storia. Da Emmanuel Macron a Boris Johnson, passando per Olaf Scholz, è difficile trovare qualcuno che abbia messo in cascina meno interviste di Draghi. Non solo: è ancora più difficile trovare un leader che segua una comunicazione politica come quella adottata dal premier italiano.
Draghi non twitta, non posta foto su Instagram e non scrive post su Facebook. Al massimo sono i media che rilanciano le sue immagini più emblematiche, come quella nella quale si vede seduto in disparte al Museo del Pardo di Madrid. La distanza comunicativa con gli elettori è abissale, mentre l’immagine di Draghi è solenne, quasi inarrivabile.
Solo due interviste in un anno e mezzo
Devono passare sei mesi dal suo insediamento per assistere alla prima intervista di Draghi. L’erede di Giuseppe Conte la rilascia al Tg1 il 17 agosto 2021. Il tema principale è la crisi dell’Afghanistan, con il Paese finito nel caos dopo il ritiro attuato dagli Stati Uniti e dalle forze occidentali.
La seconda, e fin qui ultima, intervista del premier risale al 17 aprile 2022. Questa volta Draghi parla al Corriere della Sera, e lo fa in un momento delicatissimo, a circa due mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina. Tanti i punti toccati, alcuni anche sul passato e futuro del suo governo. Il momento più difficile? “La situazione alla fine di febbraio dello scorso anno era davvero preoccupante”, spiegava Draghi. Nella stessa intervista, il premier auspicava che i presidenti del Consiglio “fossero tutti eletti”. “Queste sono situazioni d’emergenza, è bene essere consapevoli che sono situazioni particolari”.
Per quanto riguarda il futuro, ormai diventato pericolosamente presente, Draghi affermava che non avrebbe alcun piacere ad essere eletto. “È estraneo alla mia formazione e alla mia esperienza. Ho molto rispetto per chi si impegna in politica e spero che molti giovani scelgano di farlo alle prossime elezioni, alle quali intendo tuttavia partecipare come ho sempre fatto: da semplice elettore”.
Castellani: “Comunicazione scusa di Conte” per rompere
Il Movimento Cinque Stelle ha dichiarato per mezzo di suoi esponenti, a più riprese, che con Draghi e lo staff di Palazzo Chigi sia difficile confrontarsi. E spesso Draghi ha agito da uomo solo al comando. Come in occasione della partita delle nomine del 2021 e 2022. Proprio le nomine hanno notevolmente ristretto il campo di influenza del partito di Giuseppe Conte, contribuendo alla rottura. Ancora a marzo 2021 Marco Venturini, tra i principali esperti di comunicazione politica nel nostro Paese, ha scritto su Il Fatto Quotidiano che lo stile comunicativo di Draghi potesse alienargli consensi politici e creargli difficoltà con la maggioranza.
Per Lorenzo Castellani, politologo e saggista della Luiss, non è la comunicazione “modello Draghi” ad aver creato le condizioni per la rottura M5S-Draghi. Secondo Castellani “la comunicazione è sopravvalutata”, dice a True News. “Un classico sintomo di decadenza politica della nostra epoca. Solo gli ingenui o gli sprovveduti possano credere che la politica si fondi sulla narrazione”. In questo caso “è una scusa strumentale all’iniziativa politica di Conte”, nota. Se si sceglie di sostenere un premier tecnico si sa a cosa si va incontro: poca comunicazione esterna, accentramento delle decisioni, neutralizzazione del conflitto politico, centralità della politica europea ed estera rispetto a quella interna”.
È quello che partiti, istituzioni e mercati chiedevano a Draghi fin dal principio” e che si riflette oggigiorno nel consenso trasversale conferito al premier semi-dimissionario da enti corporativi, sindacati, associazioni di categoria, imprese, stampa internazionale. D’altronde per Castellani il tema va indagato alla luce del fatto che “non è detto che fare molta comunicazione serva sempre ad evitare problemi. Tutti ricordiamo le dirette infinite di Conte durante la pandemia così come i proclami del Movimento 5 Stelle e Pd sul campo largo nel corso del Conte-bis”, fa notare l’autore di Sotto Scacco. “Eppure anche quel governo è collassato. I motivi delle rotture sono, al fondo della questione, sempre politici. Legati alle tattiche domestiche e ai vincoli esterni”.
Renzi e Conte, due strappi a confronto
Conte , in particolare, “non ha mai digerito la sua sostituzione da parte di Draghi né l’idea di dover far parte di una maggioranza di unità nazionale e infine ha anche dovuto subire la scissione di Di Maio”, sottolinea Castellani. La richiesta di risposte chiare al premier sui decreti, la posizione sull’Ucraina e le ultime mosse giudicate provocatorie rende manifesto uno sganciamento politico che per Conte deve rappresentare l’equivalente del siluro lanciato al suo governo da Matteo Renzi nel gennaio 2021.
“Mi pare che la manovra di Conte sia più dettata dalla necessità di sopravvivere politicamente portando all’opposizione il Movimento”, nota Castellani a riguardo. “Al contrario della manovra di Renzi che esprimeva interessi più istituzionali cioè allargare la maggioranza per gestire pandemia e PNRR”. Naturalmente, sottolinea il politologo, ha pesato anche la guerra in Ucraina: “le divergenze sul posizionamento e i referenti internazionali (gli USA per Draghi e la Cina per Conte), la contesa sul sostegno militare a Kiev, il peggioramento del quadro economico. Uno scenario che, combinato con la scadenza naturale della legislatura tra pochi mesi, mette pressione sui partiti che hanno perso maggiori consensi”.
Partiti impotenti per Castellani
Non di sola comunicazione, quindi, vive la politica. E i partiti dovranno tenere in considerazione il fatto che Draghi, volenti o nolenti, rappresenta uno spartiacque. “Più che cambiati”, per Castellani, i partiti “escono impotenti dato che il governo Draghi non è altro che l’auto commissariamento del sistema politico”. In questa legislatura, “a sinistra dovrebbero aver capito che puntare su leadership deboli o improvvisate, come quelle di Zingaretti e di Conte, non porta da nessuna parte. Anzi, esse creano i presupposti per la deflagrazione. E che il dirigismo europeo da solo non basta a placare il malessere sociale e a gestire la domanda di sicurezza a tutto tondo della popolazione”.
A destra, invece, “dovrebbero essersi resi conto che un certo sovranismo integrale è utopico e auto-lesionistico. Esso s’infrange contro la realtà del potere e senza pragmatismo non si governa oppure una volta arrivati al potere non si regge. Ma questi forse sono discorsi rivolti più al passato che al futuro. Dal modo con cui sarà gestita questa crisi internazionale potrà cambiare nuovamente tutto, alcuni spazi si chiuderanno (come quelli per i partiti filo-russi e filo-cinesi) mentre altri si apriranno sull’onda della depressione economica, dell’inflazione e della paura“.
In cui più della comunicazione conterà la capacità d’azione concreta, su cui a suo modo il governo Draghi si stava avvitando negli ultimi mesi, vittima dei veti incrociati. Questa crisi è un redde rationem personale nel quadro di un contesto politico liquido in cui si va disgregando un governo tenuto in piedi da diversi mesi solo dall’emergenza bellica e dal contesto globale. Della politica nazionale, voto o non voto nei prossimi mesi, rischia, dopo l’autocommissariamento, di non restare pietra su pietra. Parlare solo di comunicazione e ricerca spasmodica del consenso ha portato all’autocommissariamento di una politica che ora non ha altre opzioni se non quella di riscoprire sè stessa e il suo ruolo di risolutore delle crisi sociali del sistema-Paese.