Cosa vedrebbe uno straniero qualsiasi se una sera accendesse la tv su Rai 1 o Canale 5? Un macabro spettacolo: il corpo impagliato di un animale estinto, la fiction all’italiana.
Ebbene sì, la fiction italiana è morta. “Ma si muove ancora”, direte. Perché le reti, impietose, fanno accanimento terapeutico sperando di resuscitarla. “Ma tanti ancora la guardano”, direte. Quei tanti avranno un feticismo per le trame esangui, i cliché maciullati, l’aroma di cipresso. Chi sono poi, questi tanti? Quanto pesano sull’audience gli anziani addormentati davanti alla tv? E quanto quelli che si rassegnano alla prima fiction in onda, in paesini di provincia dove la fibra e Netflix sono un miraggio?
L’ultimo Festival di Sanremo ha presentato come grandi novità il passaggio del testimone da Terence Hill a Raoul Bova nella serie Don Matteo e l’arrivo di Noi, versione nostrana del cult This Is Us. Un vero scoop: l’ennesima stagione di un programma pluridecennale e il rifacimento di un successo sicuro. Perché tanta vigliaccheria? Come mai non si vede mai niente di nuovo?
Il problema della fiction generalista sono i produttori, le reti, gli editor che dicono sempre “non si può fare”. Un autore propone qualcosa che non sia già stravisto? Non si può. Impossibile rischiare di perdere il pubblico certo per andare a corteggiarne uno, più giovane ed eterogeneo, di cui non si sa nulla.
Quegli stessi produttori e dirigenti di rete odiano però sentirsi dire “non si può fare” proprio da quel pubblico a cui non sanno rivolgersi. Le nuove generazioni che chiedono basta, per carità, con le solite storie di corna, di turbe adolescenziali da pubblicità progresso, di bimbi malati come pretesto per trame strappalacrime, di preti e suore come pilastro della società, di donne bidimensionali che possono essere solo madri o puttane. Basta con gli stereotipi sulla comunità LGBT+, basta con lo sguardo pietista sullo straniero che si deve “meritare” il posto nella società.
I giovani si rivolgono allo streaming e i vecchi continuano a dormire davanti alla tv, sereni mentre la fiction finisce di decomporsi con ascolti di tutto rispetto. Due mondi paralleli che non si toccheranno mai.
Come possiamo pretendere che roba simile abbia pubblico all’estero? Che tipo di biglietto da visita rappresenta, la fiction italiana, per il mondo che oggi ha sempre più strumenti per conoscere la nostra cultura? Tra le serie degli ultimi decenni, Il Commissario Montalbano, Gomorra e L’amica geniale sono tra le poche apprezzate a livello planetario. Dovrebbe essere un’indicazione precisa, no? Storie con forti basi letterarie e dotate di un’identità storica e territoriale inconfondibile.
Alla faccia del loro successo, c’è chi se ne vergogna. Teme che il modo in cui ci presentiamo al mondo sia “provinciale”, centrato sulle piccole realtà del Bel Paese. Che queste storie, anziché portare prestigio e interesse, dipingano un Paese infestato di criminali ma pittoresco nella sua arretratezza.
Non è forse questa unicità che attrae il pubblico internazionale? Cosa succede quando cerchiamo di creare prodotti più compatibili con lo standard estero? Si perde identità, senza guadagnarci in qualità del racconto. Si creano storie che vorrebbero essere universali e invece sono insapori, anonime, senza mordente. Morte quanto fiction che vanno avanti da decenni, senza che nessuno abbia il fegato di staccare la spina.