Si voterà in autunno, per la volta da quando c’è la Repubblica, ma non nella storia italiana. Dal 1948 in poi tutte le elezioni si sono svolte in una finestra temporale compresa tra febbraio e giugno. Mai d’estate e mai d’autunno. Per trovare uno strappo alla regola, bisogna tornare indietro di 103 anni. C’era il Regno d’Italia, non ancora il regime fascista e il paese era appena uscito da un conflitto mondiale, il primo. Le elezioni si tennero il 16 novembre 1919 e non andò benissimo.
Vittoria mutilata
L’Italia che in quei giorni si recava ai seggi era appena uscita dalla Grande Guerra. Il conflitto era costato al paese oltre 650mila caduti militari; e più di 1 milione di vittime civili, falciati da privazioni e dalla febbre spagnola. Un paese vincitore, ma insoddisfatto degli accordi di pace di Versailles; che pure all’Italia riconobbero Trento, Trieste e la Venezia Giulia austriache. Gabriele D’Annunzio, definì “mutilata” la vittoria, per la mancata assegnazione all’Italia della Dalmazia e di Fiume.
Proprio all’odierna Rijeka, alla testa di 2.500 legionari e col motto “O Fiume o morte“, puntò il Vate. Il 12 settembre occupò la città, proclamandone l’annessione all’Italia. L’impresa fiumana durò un anno e mezzo, fino al “Natale di sangue” del 1920; quando l’esercito italiano sgomberò a cannonate i ribelli dell’autoproclamata Reggenza del Carnaro. Le concessioni territoriali non soddisfacenti nel frattempo avevano portato alla caduta del governo di unità nazionale di Vittorio Emanuele Orlando; sfiduciato il 23 giugno 1919. Al suo posto fu chiamato Francesco Saverio Nitti, del Partito Radicale. Il primo Presidente del Consiglio nato dopo l’Unità d’Italia.
Società di massa
Le elezioni del novembre 1919 furono le prime dopo l’enorme esperimento sociale che è stato la Grande Guerra; in particolar modo per un paese di recente unificazione come l’Italia. Per la prima volta milioni di uomini si trovarono fianco a fianco nelle trincee; sottoposti a ordini e propaganda e al lato oscuro di industrializzazione e tecnologia. Anche le donne entrano di diritto nella società di massa col conflitto. Non potevano ancora votare, ma svolsero un ruolo di primo piano. Nelle campagne e nelle industrie; al fronte come infermiere e sostenendo lo sforzo bellico dell’economia di guerra.
I mezzi di comunicazione avevano ormai fatto breccia nella società; di pari passo con la diffusione dell’istruzione e delle rivendicazioni. Ai giornali si affiancarono i sindacati. I tempi erano ormai maturi per l’avvento dei primi partiti politici di massa. Pronti a raccogliere il testimone dei vecchi raggruppamenti risorgimentali.
Nuove forze politiche
Il passaggio alla società di massa fu tutt’altro che sereno come la Belle Époque pretendeva di far pensare. Negli anni a cavallo del conflitto in Italia si assistette a un’inarrestabile democratizzazione della politica; come dimostrato da un’altra elezioni autunnale: quella del 26 ottobre 1913, la prima con il suffragio universale maschile dopo il Patto Gentiloni. Gli aventi diritto al voto passano da meno di 3 milioni nel 1909 a più di 8 milioni nel 1913.
A insidiare il vecchio ordine liberale erano due forze nuove; che attirano gli entusiasmi e le rivendicazioni dei nuovi enormi bacini elettorali. Il Partito Socialista italiano, nato nel 1892; e il Partito Popolare italiano, fondato proprio in quel 1919 da don Luigi Sturzo.
Paese diviso
Alle fatidiche elezioni del 26 novembre 1919 i frammentati cartelli elettorali del vecchio mondo liberale si presentarono divisi. Ormai prossimi a essere travolti dal nuovo che avanza; complice anche la nuova legge elettorale proporzionale. Dalle urne emerge un quadro politico incerto.
I socialisti vinsero, ma non sfondarono. Furono ampiamente il primo partito col 32%, ma non sono in grado di formare un governo. Ampiamente staccati i nuovi arrivati del PPI al 20%; e le “liste concordate” di liberali, democratici e radicali al 16%. Che possono guardare all’appoggio di altre liste di liberali, socialdemocratici e combattenti che assommano oltre il 20%.
All’indomani del voto fu confermata la fiducia al governo Nitti. Proseguì per qualche mese, tra molte difficoltà per lo scarso appoggio parlamentare. Messo in minoranza nel 1920, il suo secondo esecutivo non riuscì a trovare la maggioranza. Dopo solo 18 giorni lasciò spazio al ritorno di Giovanni Giolitti. La vecchia volpe liberale – padre del trasformismo – formò il suo V governo.
Le conseguenze delle elezioni
Nel frattempo il paese viveva un fase di pieno sconvolgimento. Il “Biennio rosso“, il momento di maggiori agitazioni che il paese avesse conosciuto – sino a quel momento. Operai e contadini occupano fabbriche e campagne, in attesa dell’ “ora x” della rivoluzione. Che però non arrivò. Così il paese, nello sconquasso di classe politica e istituzioni, guardò a un’altra soluzione per arginare il “pericolo rosso“.
Alle elezioni del 1919 si era presentata nel solo collegio di Milano una nuova formazione. Nonostante i capolista autorevoli, Arturo Toscanini e Filippo Tommaso Marinetti, aveva raccolto la miseria di 5mila voti. L’Avanti del 19 novembre 1919 mette alla berlina i fasci di combattimento, fondati da quello che fino al 1914 è stato il direttore del giornale. “Un cadavere in stato di putrefazione fu ripescato stamane nel Naviglio: pare si tratti di Benito Mussolini”. Mancava meno di un anno e mezzo alle elezioni del 15 maggio 1921, le ultime democratiche della storia del Regno.