Perché questo articolo potrebbe interessarti? Quello di Artem Uss è solo l’ultimo di una lunga serie di evasioni dalle carceri italiane. Dai penitenziari, alla magistratura, passando per la politica: il nostro paese ha un problema con la giustizia a tutto tondo. L’avvocato Guido Camera, presidente dell’associazione ItaliaStatodiDiritto, prova ad allargare il discorso per comprendere a fondo le problematiche della giustizia in Italia.
L’Italia ha un serio problema con le evasioni. Quella di Artem Uss – cittadino russo arrestato a Milano, da dove ha poi fatto perdere le tracce, pur avendo un braccialetto elettronico – è addirittura il nono da inizio 2023. I dati relativi al 2021 dell’Osservatorio europeo Space mostrano come il tasso di evasione dalle prigioni italiani sia di 22,8 ogni 10mila detenuti; dieci volte superiore alla media Ue del 2,2 fuggiaschi ogni 10mila carcerati. Eppure il nostro paese è il quarto nel continente per le spese per il mantenimento dei 54mila detenuti; e per gli oltre 38mila operatori di polizia carcerari. Prima della pandemia, la spesa ammontava a 3 miliardi di euro; quanto spendono Spagna, Olanda e Portogallo insieme. L’avvocato Guido Camera, presidente dell’associazione ItaliaStatodiDiritto, analizza con True-news.it le problematiche della giustizia in Italia.
Avvocato, iniziamo da una domanda che forse potrà sembrare un po’ stupida. Ma è così semplice “sfilarsi” l’anello elettronico?
Sinceramente no. Però eviterei di commentare un caso di cronaca… Posso limitarmi all’esperienza personale di clienti col braccialetto elettronico. Mi è sembrato tutt’altro che semplice da togliere. Peraltro, non è una cosa così frequente il braccialetto elettronico.
Quindi è una misura eccezionale?
“No, direi, la misura è sempre stata il carcere. Noi abbiamo un ordinamento abbastanza “carcerocentrico”, soprattutto nella fase cautelare.
Avvocato, come è possibile che in Italia ci sono tutte queste evasioni? Che prolemi ha la giustizia nel nostro paese?
Bisogna affrontare il problema a livello organico. In Italia c’è un problema storico di approccio, o comunque di impostazione, dell’ordinamento penale. Ci sono ovviamente carenze organiche anche nella polizia penitenziaria e, in generale, nelle forze dell’ordine; ma la penuria riguarda tutta la pubblica amministrazione, basti pensare alla sanità. Un altro errore storico è stato pensare di risolvere la gran parte dei problemi sociali con il ricorso al carcere. Abbiamo una situazione carceraria che ha comportato la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; oltre a un richiamo del Cpt, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene. Le evasioni e l’alto numero di suicidi in carcere denotano lo stato degradante della pena. Il male storico della giustizia è alla radice; e la misura principale è sempre stato il carcere. Così si sottraggono risorse al contenimento di reati più gravi e pericolosi.
In termini concreti, quando la giustizia farebbe meglio a ricorrere a misure alternative al carcere?
Tutti quei reati che, grazie alle riforme approvate nella scorsa legislatura, consentano di ripagare il proprio debito con la società con misure alternative. Bisogna dare tempo alla riforma Cartabia, per valutarne gli effetti. Penso che in carcere debba stare chi ha compiuto reati gravi; chi è pericoloso per la società e non chi potrebbe reinserirsi. Ci sono molte misure di risocializzazione efficaci, come le varie forme di lavori di pubblica utilità su cui punta la riforma approvata nella scorsa legislatura. In carcere deve rimanere chi ha commesso reati di mafia e terrorismo; e reati violenti, come rapine, estorsioni e furti aggravati.
Come è intervenuta in materia “svuotacarceri” la riforma Cartabia della giustizia?
Innanzitutto, ha incentivato le condotte riparative del reato. Con l’aspetto importantissimo del ravvedimento attraverso il lavoro di pubblica utilità o il risarcimento dei danni. Traspare una volontà di rieducazione, come affermata nella Costituzione. E’ poi intervenuta sulla vexata quaestio della giustizia italiana: la necessità di accorciare i tempi. Se noi accorciamo i tempi processuali, la pena diventa anche più proporzionata. Il condannato per un reato commesso a molti anni di distanza è a persona diversa; che percepirà la pena come iniqua. La riforma Cartabia punta a ridurre del 25% i tempi processuali e ad anticipare la fase di espiazione della pena.
C’è una continuità tra la riforma della Giustizia di Cartabia e quella del precedente Guardasigilli Orlando?
Bisogna dare il tempo di vedere l’impatto di tutte le riforme della giustizia delle ultime legislature. C’è un unico comun denominatore: il carcere è una misura necessaria, ma solo per chi ha commesso un reato realmente grave o è socialmente pericoloso. Per tutti gli altri reati esistono forme di pena alternative al carcere. Lavori di pubblica utilità, messe alla prova, servizio sociale. Bisognerebbe aumentare l’organico di tutte quelle articolazioni della pubblica amministrazione per il reinserimento sociale. Da una parte quindi c’è un problema di fondo: ci sono i soldi? Perché se non abbiamo gli organici per gli infermieri allora forse non abbiamo gli organici neanche per gli assistenti sociali e la polizia penitenziaria.
Per esempio, tra i mille problemi della Giustizia in Italia, è venuto fuori che non ci sono più posti al 41bis…
Il 41bis è una misura eccezionale, perché comporta delle privazioni straordinarie della libertà personale, legate alla pericolosità del soggetto. Io mi chiederei anche, ma in tutti i casi in cui oggi viene erogato il 41bis, è realmente necessario erogarlo? Perché esistono molte forme di detenzione, anche di alta sorveglianza, che non sconfinano nel 41bis. Non bisogna nemmeno trascurare il fatto che gli stati e gli ordinamenti che hanno il maggior tasso di criminalità sono quelli in cui le condizioni dei detenuti e delle carceri sono le peggiori.
Quanto è di fatto modificabile in generale il sistema del carcere? Politica e magistratura possono incidere sulla Giustizia?
Bisogna partire da un interrogativo di base. Il carcere è una soluzione sociale che prescinde dall’individuo; oppure è una misura necessaria ma comunque residuale, irrogata solo quando veramente c’è un reato grave o un pericolo? Io propendo per la seconda posizione, che investe sulla risocializzazione e per certi versi sulla responsabilizzazione del reo. È un percorso complesso che prevede un ricorso organico. Per certi aspetti la politica è riuscita a intervenire sulla giustizia, modificando il sistema. Un esempio è l’introduzione del reato di tortura. Una conquista di civiltà, con alle spalle una storia che trae origine dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
Sulla base della sua esperienza, quanti sono i detenuti realmente pericolosi, diciamo “irrecuperabili”?
Faccio fatica a dare dei numeri. È evidente che ci siano delle situazioni di gravità e di pericolosità che non possono essere collocate nella società. Tra l’altro non dimentichiamo che noi abbiamo spesso anche casi di malattie psichiatriche che sfociano nel crimine. In tal caso, ci troviamo di fronte a un malato psichiatrico, non un criminale; che quindi non possiamo tenere in società. Nella mia esperienza ho visto però molte persone che sono riuscite a intraprendere percorsi di recupero. Anche rispetto a reati molto gravi, come l’omicidio. Ho avuto assistiti condannati per omicidio con un percorso di rielaborazione importante; che a distanza di anni si sono meritati nuove opportunità. Dopo vent’anni di carcere un individuo è segnato; ha vissuto forme di privazione pesanti non è facile riconquistare l’anonimato nella società. La grande sfida su cui si dovrebbe investire è quella della riconciliazione. Lo Stato dovrebbe incentivare la composizione dei conflitti e non i regolamenti di conti. Come è stato fatto nel Sudafrica post-apartheid. Non è semplice, ma questo è il filo rosso che unisce tutte le misure in materia sia penale sia penitenziaria.
Se ne è tornato a discutere molto, dopo un editoriale sul Corriere della Sera di Luigi Ferrarella sul senso delle inchieste sulla pandemia. Arriveremo mai a una giustizia di riconciliazione: riparatoria e non punitiva?
Si può fare in modo che ognuno faccia il suo, con senso di responsabilità. E quindi, fare in modo che il promotore di una legge lo faccia senza i condizionamenti del consenso o il timore delle conseguenze; chi deve applicare quella legge la applichi ricordando che è soggetto solo alla legge, e non ha altre forme di condizionamento. In generale, dobbiamo però anche lavorare molto sulla comunità. Ricordare a tutti che la democrazia è un esercizio faticoso, che richiede anche a chi non ne è protagonista di essere partecipe; di esercitare le proprie decisioni in modo consapevole. Ciò significa alzare gli standard di responsabilità di tutti, consapevoli di quelli che sono i ruoli. Questo vale anche per il mondo dell’informazione. La giustizia non deve più essere solo terreno di scontro, di regolamenti di conti. Ma la più alta espressione della garanzia della convivenza civile.