Sono mesi caldi sul fronte giudiziario nel nostro paese. Mai come in questi tempi la magistratura sembra godere di bassa stima da parte dell’opinione pubblica. Se i processi mediatici (e non) – da Silvio Berlusconi a Mimmo Lucano – continuano a riempire le cronache dei quotidiani, scandali e inchieste soffiano sul fuoco che da tempo spinge per una profonda riforma della magistratura nel nostro paese.
Il clima in Italia è cambiato rispetto alla stagione di Mani Pulite, sembra essere finita l’epoca iniziata il 30 aprile 1993, giorno del lancio delle monetine a Craxi a cui Filippo Facci – giornalista e scrittore – ha dedicato il suo ultimo libro.
Partiamo da una domanda che può sembrare banale: chi era Bettino Craxi?
E’ un personaggio che ho conosciuto tardivamente, io che non sono mai stato socialista ma craxiano ad personam. L’ho conosciuto nel gennaio 1993, nel pieno e nel peggio della parabola discendente, quando aveva appena ricevuto i primi avvisi di garanzia e si avviava verso il linciaggio dei mesi successivi. Non so spiegarlo razionalmente, potrebbe essere soggettivo, se non fosse che è opinione comune: aveva un carisma naturale, che non ho mai riscontrato negli altri personaggi famosi che ho incontrato negli anni. E’ stato l’ultimo dei grandi politici in Italia, l’ultimo statista con una visione.
Che paese era l’Italia tra il 1992 e il 1994?
Un paese in trasformazione, che a inizio anni Ottanta usciva dagli anni di piombo, e che Craxi ha traghettato verso la modernità. Pose le basi perché il nostro paese potesse essere interlocutore delle principali potenze mondiali, in una stagione di cambiamento che nessuno aveva potuto prevedere, ad eccezione forse dell’ultimo presidente della Prima Repubblica: Cossiga. Aveva capito che la fine della Guerra Fredda avrebbe privato l’Italia del suo ruolo di crocevia, della sua posizione strategica di confine che fino ad allora aveva garantito molta indulgenza verso il nostro paese. L’Italia sarebbe stata abbandonata al suo destino, senza più protezione americana. Il contesto internazionale stava avviando il silenzioso crollo dell’equilibrio politico nel nostro paese, reso rumoroso dall’irruzione di “Mani pulite”.
Che anticipazioni ci furono quel giorno dell’Italia di trent’anni dopo?
La ricerca di semplificazioni. La colpa degli italiani fu di semplificare, pensando che la mancanza di denaro fosse da imputare agli stessi politici che, per mantenere il compromesso, avevano fatto sì che l’Italia fosse viziata e pasciuta. L’Italia si ritrovò ad essere un paese non più in grado di vivere al di sopra delle proprie possibilità: un paese di welfare ed evasione fiscale insostenibile, nodi chiave che anche oggi ci portiamo. Aggiungiamo poi che in quegli anni si entrava nell’Unione Europea, senza la consapevolezza di cosa si stesse facendo. Quegli anni “poco occidentali” e forcaioli hanno poi anticipato il populismo e di un certo modo di documentarsi in modo rapido e spesso impreciso.
In che senso?
Per esempio, le uniche testimonianze di quei giorni sono delle troupe del Tg4 e di Mixer di Rai3 che filmarono quelle scene viste milioni di volte, ma che se fosse stato per la stampa dell’epoca non sarebbe esistito: nessun giornale menziona il fatto, fu completamente censurato dai quotidiani del 1 maggio. Questo perché i giornali all’epoca erano fatti così: non erano né un freddo sistema di sintesi dei fatti ritenuti interessanti e neanche un aperto strumento di militanza. La stampa si sentiva parte della rivoluzione giudiziaria in atto e ne erano strumento. Dal pool di giornalisti nel Tribunale di Milano, ai direttori dei principali quotidiani che si telefonavano per sincronizzare le stesse prime pagine. Il linciaggio di Craxi fu solo citato in un sottotitolo dell’Unità o rovesciato come una provocazione di Craxi che sfidò la folla.
Che giorno è stato il 30 aprile 1993? Lei afferma che è stato “il simbolo di un’epoca”.
Per cominciare, è un fatto raro nella sua drammaticità, un unicuum nella storia repubblicana: non era mai successo che un politico venisse linciato fuori dalla sua abitazione privata – perché l’Hotel Raphael era la sua residenza romana da vent’anni. Quando c’era la guerra del Vietnam, i contestatori gridavano sotto il fortilizio dell’ambasciata, non sotto la casa privata dell’ambasciatore americano. Persino le Brigate rosse, che ammazzavano avvocati e magistrati, si premuravano di far sapere che le pallottole non erano rivolte agli uomini, ma alle toghe che indossavano. Quando il segretario comunista Enrico Berlinguer, ospite del congresso socialista del 1984, fu sonoramente fischiato, lo stesso Craxi si affrettò a spiegare che i fischi non erano diretti alla persona, “ma a una politica profondamente sbagliata”. Quella giornata è il simbolo di un paese che impazzì. Fu l’acme della violenza che si riversò sulla politica, che anticipò la demagogia successiva. Per me quel giorno iniziò la fine della politica, perché la decisione del Parlamento del giorno prima – che aveva votato contro 4 autorizzazioni a procedere della magistratura sulle 6 nei confronti di Craxi – fu rovesciata a furor di popolo. La gente scese in piazza e la decisione del Parlamento venne ribaltata.
Nel libro scrive come “Sui giornali c’era l’anticipazione della ‘rivolta del Web’”. C’era squadrismo anche in quei giorni?
Certamente, ci fu squadrismo nell’attacco fisico a una persona. Ma anche nella decisione dei giornali di pubblicare senza filtri paginate intere di telefonate, lettere, telegrammi di protesta. Un’anticipazione dello shitstorm della nostra quotidianità social. Già allora esisteva una “folla solitaria” che dalle mura di casa propria tirava il sasso per poi nascondersi. A questi solitari “leoni di da telefono”, si accompagnò un pezzettino di folla-per-niente-solitaria che in strada cercò di eliminare fisicamente Craxi. Si ritrovarono coesi in un conformismo mai più visto, con cui gli italiani trovarono un modo per assolversi dal loro imperdonabile stile di vita, trovando il colpevole perfetto.
Craxi disse “Vogliono il rogo e non il processo”. Adesso che due dei principali accusatori, Di Pietro e Davigo, sembrano essere caduti in disgrazia, pensa che la riforma della giustizia possa impattare davvero sulla magistratura inquirente o finirà in nulla?
Credo che, per come è impostata adesso, la riforma non potrà cambiare più di tanto le cose. Draghi è l’unico in grado di poter mettere mano alla magistratura, perché è un non-politico. Siamo arrivati a questo paradosso della politica che ha bisogno di curatori fallimentari esterni, senza mediazione. Esistono snodi che non si posso sistemare solo tagliando i rami secchi della magistratura: bisogna cambiare la Costituzione per come concepisce la magistratura. È qualcosa che non esiste ovunque nel mondo, il più forte dei poteri nel nostro paese. È il vero “sistema” – per citare il libro di Sallusti e Palamara – di potere nel nostro paese, è necessario riqualificare il rapporto tra giudiziario ed esecutivo; e soprattutto dividendo il potere inquirente dal potere giudicante. Due eresie che ora si stanno ritorcendo proprio contro alcuni magistrati in questi giorni.
Cosa ne pensa della vicenda di Mimmo Lucano?
E’ di una semplicità aberrante. Ogni tanto la sinistra, su elementi che non ha o con ricostruzioni parziali, edifica “presepi”. Si è dato vita a un modello intoccabile, anche quando il protagonista di quello che erroneamente si è ritenuto un modello d’integrazione, viene disvelato dalla magistratura. Lucano si è rivelato un piccolo trafficante, un truffatorello che usava i fondi per l’accoglienza non per arricchimento personale ma per ottenere consenso personale, per sé e per la sua cerchia. Un sistema di lobbying alla calabrese, che impunemente e con protezione mediatica, è riuscito finché la magistratura – che gli era amica – non ha dovuto far cadere il castello. Un altro mito tristemente demitizzato. Lucano è in parte una vittima, un italiano furbo che però da un lato si può capire: quanto più perseverava nel dolo, tanto più il sistema mediatico lo proteggeva ed esaltava.