Perché leggere questo articolo? Non tutto il male vien per nuocere. Le inchieste in Puglia e Piemonte possono segnare la fine della stagione del populismo. Il finanziamento pubblico ai partiti non è più un tabù. Ci sono buone ragioni per tornare a discuterne seriamente. La prima è il costo: un caffè all’anno.
La storia è un pendolo. Per Tolstoj oscilla tra guerra e pace, mentre nella vita di ognuno di noi tra piacere e dolore. La politica italiana, da sempre, oscille tra gli eroici furori contro i privilegi della “casta” e l’eterno ritorno del finanziamento pubblico ai partiti. Le recenti inchieste in Puglia possono segnare la fine di una lunga e ingloriosa fase della politica nostrana: il capolinea della stagione populista. Che sia l’inizio di un tempo nuovo? Forse, finalmente, il finanziamento pubblico ai partiti non è più un tabù.
Si torna a parlare di finanziamento pubblico ai partiti
“Serve una riforma attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, riorganizzando le forme partitiche e tornando al finanziamento pubblico. Da troppi anni assistiamo a un dissolversi della politica organizzata, con il risultato di far vincere i personaggi e i personalismi”. A rompere gli indugi e a superare, con un certo coraggio, gli steccati ideologici intorno a questo argomento è stata la parlamentare del PD Chiara Gribaudo, in un’intervista a “La Stampa”.
Il riferimento, nemmeno troppo velato, è ai pasticci nella gestione della politica locale in Puglia e in Piemonte che hanno messo in crisi la riorganizzazione del centro sinistra nel Campo Largo. Il ministro degli esteri Antonio Tajani ha fatto da sponda alla deputata del PD. “La democrazia ha dei costi e i partiti sono il collegamento tra cittadini e istituzioni. L’importante è che siano guidati in maniera onesta e trasparente. Io non sono in principio contrario al finanziamento pubblico. Discutiamone”.
La reintroduzione al prezzo di un caffè
Dalle stesse colonne della Stampa, Flavia Perina, ex direttrice del Secolo d’Italia e deputata di An, raccoglie la proposta di Gribaudo, che evidentemente trova sponde bipartisan. “Nel 2013, quando gli onorevoli avevano smesso di dichiararsi tali pure al telefono, […] l’abolizione del finanziamento pubblico sembrava scelta obbligata per tentare la redenzione della Casta. Dieci anni dopo possiamo guardare a quella fase con maggiore lucidità“. I motivi per un’analisi approfondita della proposta non mancano.
La prima questione è di natura economica. Reintrodurlo non costa poi granché. Il finanziamento pubblico ai partiti che è stato cancellato dal governo presieduto da Enrico Letta nel 2013, quando è stato introdotto il meccanismo del due per mille. E in questo caso il risparmio è tangibile. Dai precedenti 90 milioni di euro sborsati dallo stato ogni anno per finanziare le forze politiche; si è passato agli attuali 23 milioni di euro presi dalle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti che, volontariamente, indicano a quale partito destinare il loro due per mille. La reintroduzione costerebbe grossomodo 60 milioni di euro. Un caffè all’anno per ogni italiano.
Col finanziamento pubblico si toglie la politica agli ottimati
Vecchio problema, quello del finanziamento pubblico dei partiti e, quindi, della possibilità di fare politica offerta anche per le classi meno ambienti, quelle che per vivere devono svolgere un’attività economica che consenta loro la sussistenza. Ben conosciuto già nella Grecia antica e nella Roma dei popolari e degli ottimati. Il finanziamento pubblico ai partiti sarebbe proprio il sistema per impedire che la politica sia riservata ai soli ottimati, gli abbienti, quelli che se la possono permettere.
L’alternativa tra finanziamento pubblico, regolamentato, e finanziamento pubblico vietato non è poi così radicale, sempre che se ne voglia parlare seriamente, toccando l’ulteriore tema dei costi della democrazia, anche questo portato nel fango dalla campagna elettorale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Del tema si torna finalmente a parlare, dopo anni di impoverimento della politica.
Il miglior sistema contro l’anti-politica
L’abolizione del finanziamento pubblico con il referendum del 1993 e poi dei rimborsi elettorali nel 2013 ha reso i partiti morti di fame. Un clamoroso autogol della politica, che ha agevolato l’anti-politica. Quella dei capibastone, dei cacicchi, degli affaristi del voto di scambio e delle consorterie. La retorica anti-Casta è ancora il sentimento che prevale nel nostro Paese. Incurante del fatto che senza il finanziamento pubblico ai partiti la politica la fanno solo i ricchi e gli affaristi. La speranza è che all’orizzonte si concretizzi la fine della stagione di rottamatori e populisti. Per dare attuazione all’art. 49 della Costituzione. Che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale“. E’ il momento di pensarci seriamente. Farlo costerebbe un caffè.