Dario Franceschini ha un sogno nel cassetto chiamato Quirinale. Lo ha accarezzato, per la prima volta, nel 2013 aprendo al Napolitano-bis per essere competitivo nel 2015, quando gli fu preferito Sergio Mattarella. Il navigato esponente del Partito Democratico ha poi mirato a essere della partita come “quirinabile” della coalizione giallorossa dopo la nascita del Governo Conte II nel 2019. Ipotesi Colle non concretizzatasi neanche in questo caso per la sopravvenuta nascita del governo Draghi di unità nazionale. Capire il ruolo politico odierno del politico ferrarese è impossibile se non si analizza la sua carriera in relazione all’obiettivo cui ha sempre guardato con attenzione.
Franceschini, un uomo di potere
Minimo comune denominatore degli ultimi quindici anni di storia politica italiana è stata la presenza ad alti livelli di Franceschini. Prima come segretario di transizione del Partito Democratico nel 2009, dopo l’addio di Walter Veltroni; poi come capogruppo dem alla Camera nella fase cruciale di rientro nella maggioranza col governo Monti (2011-2013); in seguito come Ministro per i Rapporti col Parlamento (2013-2014) nel governo Letta, pontiere della “grande coalizione” in salsa tricolore con Forza Italia; infine, dal 2014 ad oggi, come zar della Cultura italiana, alla guida del dicastero omonimo per quattro dei cinque governi succedutisi (Renzi, Gentiloni, Conte II, Draghi) con la sola eccezione dell’esperienza gialloverde nel 2018-2019.
Chi lo conosce bene, nel Pd, sussurra che Franceschini è l’interprete della continuità dem e un attento ascoltatore dei mutamenti di umore del Palazzo. Mai desideroso di intestarsi vittorie e successi, il politico ferrarese è associato dai Dem alla tendenza di saper analizzare criticamente e lucidamente le fasi di difficoltà del centrosinistra.
Con Renzi e Letta tra alti e bassi
Mai veramente leader eppure sempre protagonista come tessitore. Ex democristiano capace di cambiare più volte correnti, esordì alle spalle di Benigno Zaccagnini nella sinistra Dc. In seguito fu moroteo, demitiano e martinazzoliano nella Prima Repubblica; nella seconda è stato mattarelliano, prodiano, veltroniano, bersaniano, renziano e zingarettiano. Minimo comun denominatore: quasi sempre, “Dove c’è Franceschini, c’è maggioranza”. Parola di Matteo Renzi, che fu critico di Franceschini definendolo il “vicedisastro” durante la sua fase da numero due di Veltroni ma non potè farne a meno salito al governo nel 2014.
A detta del politologo Aldo Giannuli, Franceschini è stato utile al progetto di Renzi in quanto in grado di interpretare la linea del Quirinale allora occupato da Giorgio Napolitano, che puntava sull’attuale Senatore del Mugello per promuovere una fase riformatrice dinamica. E Franceschini, da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (1999-2001) delegato alle riforme costituzionali che portarono alla modifica del Titolo V della Carta, di questo è sempre stato capace.
Anche Enrico Letta vive un rapporto di dualismo con il collega del Pd. “Il capitolo Letta è uno dei più complessi del romanzo Franceschini”, ha fatto notare Domani. “Il ragazzo di Ferrara si dichiara figlio di Zaccagnini, il cuore antico di una Dc tutta politica (onesta) e sacrestia; il ragazzo di Pisa è figlio di Nino Andreatta, il cuore moderno di una Dc tutta politica e tecnocrazia”: tale complessità di convivenza rivive oggi nel Pd. Della cui identità ibrida tra appendice dello Stato e comitato elettorale lontanao dalla sinistra tradizionale i due sono i migliori interpreti. Portavoce delle élite europee che guardano al Pd come garante della posizione dell’Italia nel campo occidentale, Letta; sussurratore dell’alta cerchia del potere che, trasversalmente, tifa stabilità e col pretesto della delega alla Cultura può incontrare liberamente in occasioni non solamente solenni, Franceschini.
Il pontiere Franceschini
Quest’ultimo ha fatto da pontiere per il “compromesso” con il Popolo della Libertà che ha portato al governo Letta nel 2013, in cui entra come Ministro per i Rapporti col Parlamento. Appena insediatosi si ritrova ad avere un ruolo cruciale: agevolare la navigazione in Parlamento dei provvedimenti del governo, mediando con una larga e differenziata maggioranza, sia sul versante degli interventi economici che su quello delle riforme istituzionali. Nel 2014, però, Franceschini non esita a favorire l’avvicendamento a Palazzo Chigi col neo-segretario Renzi. Sette anni dopo il ritorno di Letta dalla sua Colombey d’Oltralpe, invece, Franceschini è tra i sostenitori dell’attuale segretario.
Franceschini ha fatto e disfatto, puntando al ruolo personale di pontiere e federatore. Nel 2008, inaugurando l’idea della “vocazione maggioritaria” del Pd nel campo del centrosinistra assieme a Veltroni; tre anni dopo, traghettando i dem del segretario Pierluigi Bersani, schierato a sinistra rispetto al politico ferrarese. Nel sostegno a Monti e alla conseguente austerità economica in nome del richiamo al dovere istituzionale. Era il 2013, come detto, dialogando con Silvio Berlusconi dopo le elezioni col tramite del rapporto privilegiato con Gianni Letta affermando che il PD deve abbandonare il «complesso di superiorità, molto diffuso nel nostro schieramento, per cui pretendiamo di sceglierci l’avversario»; nel 2018, sperando di consolidare l’accordo post- elezioni coi Cinque Stelle; nel 2019, contribuendo a formalizzarlo col Governo Conte II. Degli ultimi mesi invece è il passo deciso verso l’apertura di credito alla Lega di Matteo Salvini in nome del dialogo sulla legge elettorale proporzionale ritenuta garanzia di un proseguimento dell’esperienza di unità nazionale e istituzionale negli anni a venire.
Un uomo di potere
In una parola: potere, sempre e comunque. Potere, dialogo, istituzioni: Franceschini manovra per consolidarsi e consolidare il suo campo arrivando a superare e confutare sé stesso. Nella consapevolezza che, date le posizioni sempre assunte nelle seconde file, il suo ruolo decisivo è quello del tessitore, mai del promotore di una posizione. Ruolo invero ancora più delicato in quanto facente riferimento alla politica nel suo massimo grado di complessità. Fare di tutto per non apparire un numero uno e un volto di prima fascia è il suo grande obiettivo. Perché, notano i più attenti in campo dem, nessun vero numero uno e front-man della politica è mai asceso al Quirinale. Vera meta sognata da Franceschini, tra i pochi veterani del Palazzo a cavallo tra Tre Repubbliche.