Perché leggere questo articolo? Per capire come la “giustizia internazionale”, quando sono chiamati in campo russi, americani e altre grandi potenze, è sempre un concetto molto labile. E l’Ucraina non farà eccezione.
La Corte penale internazionale apre il primo processo contro la Russia, ma questo non presuppone una svolta sui crimini di guerra. Anche se a essere chiamato alla sbarra sarà Vladimir Putin. Il procuratore presso la Corte penale internazionale Karim Khan, che da tempo indaga su richiesta ucraina sui presunti crimini di Mosca nel Paese invaso, è giunto a chiedere i primi mandati di arresto. Khan ha aperto formalmente due richieste di incriminazione per crimini di guerra. Uno riguarda l’attacco alle infrastrutture di Kiev e delle altre città colpite, in diversi casi, deliberatamente da Mosca.
L’altro è invece connesso al sequestro di circa 6mila bambini tolti alle famiglie ucraine nei territori occupati per essere “russificati”. In tal senso, le convenzioni dell’Unicef sulla tutela dell’infanzia e le leggi internazionali aprirebbero al lancio di indagini contro i funzionari e i militari di Mosca. E Putin è tra i personaggi colpiti dal mandato.
Le difficoltà nel processo alla Russia
Khan avrebbe chiesto ai giudici preliminari di approvare mandati di arresto sulla base delle prove raccolte finora. Una mossa dal grande valore simbolico perché mostra come la Cpi sia disposta a andare oltre i vincoli della mancata appartenenza di un Paese alla sua giurisdizione nell’indagare. Inizialmente, secondo quanto ricordano il New York Times e l’agenzia Reuters, si pensava che l’accusa si sarebbe limitata a incriminare funzionari di seconda o terza fascia. Cioè coloro che possono materialmente aver ordinato o diretto crimini sul campo. Per i responsabili “politici” diretti, a partire da Vladimir Putin, la mancata adesione della Russia alla Cpi frena un processo del genere.
E – lo ricordiamo – anche ora che è arrivata l’incriminazione è pressoché scontato che i funzionari chiamati a processo non saranno giudicati. Raramente, infatti, la Cpi giudica in contumacia un imputato. E data la pressoché totale certezza che la Russia non consegnerebbe a una Corte a cui non aderisce i suoi indagati, l’inchiesta rischia di nascer morta. A prescindere dal generoso impegno investigativo di Khan.
Gli Usa tergiversano, e c’è un motivo
Un nodo fondamentale che il New York Times ha sottolineato è la ridotta collaborazione statunitense. La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato dell’amministrazione Biden sono stati sostenitori della cooperazione con la Cpi con sede all’Aia, come mezzo per ritenere le forze russe responsabili di crimini di guerra diffusi. Tuttavia, il dipartimento della Difesa è fermamente contrario sulla base del fatto che il precedente potrebbe alla fine essere rivolto contro i soldati statunitensi in missione all’estero. Questa sarebbe la posizione ufficiale del Pentagono che il segretario alla Difesa Lloyd Austin avrebbe riferito il 3 febbraio scorso in un meeting del National Security Council.
Cane, insomma, non morde cane. C’è un dettaglio non secondario da ricordare in questo processo che può giustificare il lassismo del Pentagono. E cioè il fatto che Washington non è a sua volta membro della Corte Penale Internazionale. Un meccanismo nato col contributo da esperti legali statunitensi che hanno contribuito a redigere lo statuto di Roma, firmato da Bill Clinton nel 2000 e da cui George W. Bush si è poi ritirato. Ora le parti “politiche” dell’amministrazione vogliono avere la botte piena e la moglie ubriaca: aiutare la Cpi contro la Russia senza farvi parte. I militari, comprensibilmente, scalpitano. E temono che dopo Mosca possa toccare ai loro uomini essere chiamati alla sbarra. Con buona pace della verità per i crimini in Ucraina.