Perché leggere questo articolo: Eliminare Hamas è la priorità di Israele a Gaza. Ma l’obiettivo riserva sfide e minacce complesse che il governo di Benjamin Netanyahu deve calcolare nella sua azione.
Israele è entrato da oltre una settimana nella Striscia di Gaza e mentre le unità delle sue forze armate tagliano in due il territorio assediando Gaza City cercando la via per la spallata decisiva ad Hamas, si iniziano a intravedere obiettivi e vincoli strategici di Tel Aviv.
Il governo israeliano di Benjamin Netanyahu vuole la vittoria totale e il premier ha ricordato più volte che “ogni uomo di Hamas è un uomo morto” dopo i massacri del 7 ottobre scorso. Ma tra la legittima risposta all’aggressione e l’attuale stato di fatto, che vede Tel Aviv intenta in una complicata guerra di terra dopo tre settimane di lunghi e sanguinosi raid aerei e missilistici il passo è lungo. E passa per la chiarificazione di almeno tre punti: la definizione di un’organica strategia per muoversi nella Striscia; l’individuazione di una soglia tale da chiarire per cosa si intende l’obiettivo di una vittoria militare; infine, punto decisivo, la ricerca di una chiave per una soluzione politica per il dopoguerra.
Qual è la strategia di Israele a Gaza
La strategia delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) ha abbandonato dopo la tentazione iniziale il piano dell’invasione totale a seguito delle crescenti pressioni degli Stati Uniti su Netanyahu per contenere la drammatica conta di vittime civili palestinesi imposte dai raid contro Hamas.
Dopo le prime puntate dei carri armati e della fanteria meccanizzata di Israele nella Striscia, nel territorio controllato da Hamas oggi lo sforzo delle Idf si concentra sull’isolamento di Gaza City e sul mantenimento del “taglio” del territorio in due. Gaza oggi vive un doppio assedio. Quello ai confini della Striscia, da un lato, si associa a quello diretto contro la capitale e sede dell’epicentro del potere di Hamas.
Israele temeva di ripetere gli errori commessi dagli Stati Uniti in Iraq contro gli insorti post-caduta di Saddam a Fallujah, nel 2004, e nella battaglia di Mosul nel 2017, contro l’Isis, quando si pensò che demolire le città passo dopo passo per stanare i guerriglieri avrebbe favorito un netto cedimento dei nemici. Ipotesi totalmente fallimentare, che costò alle truppe di terra (americane a Fallujah, curde a Mosul) gravissime perdite. Le prossime settimane si concentreranno quindi probabilmente sul consolidamento dell’accerchiamento delle unità delle Brigate al-Qassam di Hamas e sul logoramento delle sue capacità di difesa, unitamente a puntate volte a cercare i famigerati “tunnel” dei jihadisti. Inoltre, un assedio duro e puro metterebbe forse definitivamente a repentaglio la vita dei 200 ostaggi dei raid del 7 ottobre.
C’è vittoria e vittoria…
Un atteggiamento volto a minimizzare le perdite e a logorare Hamas, ovviamente, si distanzia dal piano iniziale che vedeva nella vendetta e nella reazione di pura rabbia la risposta. Scelta saggia, perché vendetta e rabbia non sono categorie politiche e menchemeno militari. Ma che del resto impongono alla politica israeliana di capire quale sia la soglia accettabile per dichiarare vittoria. Foreign Policy ricorda che un’esfiltrazione di parte dei leader superstiti di Hamas va tenuta in considerazione: dato che “l’Idf non intende inviare un gran numero di truppe nella città, non ha un modo pratico per impedire ai leader di Hamas di muoversi verso sud. Inoltre, lasciare i sistemi di tunnel in gran parte intatti potrebbe consentire a parti di Hamas di resistere nel sottosuolo al di là degli attuali combattimenti”.
Annientare Gaza e dunque “spianare, assieme ad Hamas, anche la popolazione civile porrebbe il governo di estrema destra di Tel Aviv di fronte al rischio di un nuovo flop securitario, causando l’inevitabile uccisione degli ostaggi, oltre a renderlo autore di un indubbio crimine di guerra. La strategia della pressione su Hamas che i leader militari esercitano mira a rendere sempre più costoso per i militanti il costo della resistenza a Israele in termini di uomini, mezzi e consenso. La leadership dell’Idf, nota Foreign Policy, “è consapevole che impegnarsi in combattimenti all’interno di aree urbane densamente popolate e avventurarsi nel sottosuolo priverebbe l’esercito israeliano della maggior parte dei suoi vantaggi tecnologici, inclusi sistemi di sorveglianza avanzati, sensori e apparecchiature di comunicazione. Ciò offrirebbe ad Hamas un vantaggio sia sopra che sotto terra” che non aiuterebbe al conseguimento degli obiettivi.
Israele e la via politica alla fine della crisi
L’Idf si dichiara capace di poter sconfiggere Hamas militarmente in un conflitto. Ma questo non vuol dire, certamente, che possa acquisire un risultato militare decisivo capace di chiudere la partita né che la vittoria possa essere dichiarata in termini politici. Del resto, molte scelte del governo di Tel Aviv vanno lontano dall’idea di una soluzione politica, ivi compresa la decisione di Itamar Ben-Gvir, Ministro della Sicurezza Nazionale del partito di estrema destra Potere Ebraico, di armare privati cittadini nelle colonie in Cisgiordania.
Nel corso della guerra il governo di Netanyahu vuole colpire Hamas con un’operazione in profondità a Gaza ma non sembra intenzionato a colmare un possibile vuoto di potere postbellico. Tel Aviv ha evacuato Gaza nel 2005 dopo trentotto anni di presenza in loco delle sue truppe e non ha né intenzione di insediarvi l’Autorità Nazionale Palestinese né di risolvere il problema dell’isolamento di Gaza. Piuttosto, punta a usare il caos di Gaza per spingere con forza sulla Cisgiordania.
A Israele serve “una leadership strategica solida”
Questo va in controtendenza con i desiderata di potenze come gli Usa, che chiedono un governo di transizione a Gaza guidato dalla comunità internazionale e, soprattutto, un ripristino del quadro securitario mediorientale fondato sugli Accordi di Abramo e il contenimento dell’Iran, vero vincitore del 7 ottobre. Come ha detto di recente proprio a Foreign Policy David Petraeus, generale americano già a capo della Cia, per il dopoguerra servirà leadership politica, bisogneranno fare forti sforzi diplomatici e Israele dovrà saper guidare la transizione al futuro per la sicurezza sua e della Palestina: “Questo è uno di quei casi in cui l’azione militare è assolutamente necessaria, ma non è sufficiente”, ha detto, ma c’è soprattutto necessità, da parte israeliana, di una «leadership strategica solida» che elabori «grandi idee» per la Palestina dopo un conflitto che appare incerto”. E su cui Netanyahu non sembra aver alcuna presa decisiva.