Perché leggere questo articolo? La Francia ha colpe nel dissesto della Libia. E dunque nella tragedia migratoria. Ecco perché gli attacchi a Roma sono incoerenti
Mentre Giorgia Meloni riceveva a Palazzo Chigi il “generalissimo” della Cirenaica, Khalifa Haftar, da Parigi nella giornata del 4 maggio partiva il siluro di Gerald Darmanin. Il ministro dell’Interno e “prefetto di ferro” di Emmanuel Macron ha accusato l’Italia di non saper gestire il caos immigrazione scoppiato negli ultimi mesi. E in larga parte legato al magmatico conflitto civile a bassa intensità che destabilizza la Libia.
Darmanin, l’ex fedelissimo del distruttore della Libia Sarkozy
Haftar, uomo forte dell’Est, è il padrone di una parte di Libia ove sono partiti 13mila dei 17mila immigrati giunti in Italia dall’ex Quarta Sponda da gennaio. Assieme alla Tunisia principale bacino di partenza dell’immigrazione transmediterranea.
L’attacco di Darmanin è a dir poco inelegante e fuori luogo se pensiamo al ruolo storico assunto dalla Francia nel destabilizzare la Libia.
Il ministro transalpino, 41 anni, è stato infatti in passato esponente dei Repubblicani francesi, la principale formazione del centrodestra oggi svuotata da Macron, e ha servito prima come portavoce del Ministro dello Sport David Douillet (2011-2012) poi come portavoce dell’ex presidente Nicolas Sarkozy. L’uomo che proprio nel 2011 si impuntò il varo dell’operazione militare internazionale in Libia. Conclusasi con l’uccisione del Colonnello Gheddafi, con la caduta del suo regime e con l’inizio di una fase d’instabilità che perdura tuttora.
Il disastro francese in Libia
Dal 2011 la Francia si è più volte mossa in maniera ambigua in Libia. Dapprima promuovendo il tentativo di inserire la sua Total al posto dell’Eni negli ambienti energetici. In seguito provando a portare la pressione militare oltre i confini del Paese nordafricano, in Mali e Repubblica Centrafricana, per contrastare il jihadismo. Poi giocando strumentalmente la carta del sostegno occulto a Haftar contro la stessa coalizione tribale di unità nazionale con sede a Tripoli. Infine provando a delegittimare ogni forma di inserimento italiano nel dossier del Paese.
La Libia è strategica per la questione del petrolio e del gas, ma anche per un’altra risorsa vitale per Parigi, l’uranio. E inoltre rappresenta il pre-carré per il controllo di eventuali scenari di crisi in Tunisia e Algeria. Parigi maltollera la prospettiva che l’Italia eserciti un ruolo autonomo come successo in passato nonostante si trovi a dover essere in prima linea nel gestire le conseguenze della sciagurata iniziativa francese (e britannica) del 2011.
L’Italia partecipò alla missione ma la mossa – ha spiegato Leonardo Palma in Gheddafi – Ascesa e caduta del ra’is libico – fu funzionale a ricondurre sotto il controllo Nato, cioé americano, l’iniziativa. Evitando che la fuga in avanti di Parigi e Londra portasse gli asset italiani sotto il rischio di diventare target per i bombardamenti. Da allora in avanti la Libia ha visto la diplomazia e l’influenza italiana non scemare. Eni è rimasta, primo produttore energetico straniero nel Paese. Paolo Gentiloni da Ministro degli Esteri del governo Renzi nel 2015 fu tra i mediatori degli Accordi di Skhirat. Marco Minniti, due anni dopo, Ministro dell’Interno dello stesso Gentiloni concluse gli accordi con le tribù del Fezzan sulla sicurezza dei flussi. L’intelligence e la diplomazia sono sempre stati presenti sulla sponda meridionale del Grande Mare.
Il Piano Mattei da Draghi a Meloni
Il governo Draghi con il varo della diversificazione energetica dalla Russia ha inaugurato il nuovo interesse italiano per il Nord Africa. Quello Meloni, con il Piano Mattei, o perlomeno col suo annuncio, ha varato un’agenda africana che guarda a tutta l’area africana ove la stella della Francia è in declino. E ha proprio in Libia il suo perno.
La visita compiuta a Tripoli da Giorgia Meloni a gennaio ha sembrato segnare, scriveva il direttore di Agenzia Nova Fabio Squillante, “un’importante inversione di tendenza, resa possibile, ancora una volta, dal sostegno che gli Stati Uniti offrono al nostro Paese. L’accoglienza riservata al capo del nostro governo indica una precisa scelta di campo del governo di Abdulhamid Dabaiba” che più di recente non ha escluso un colloquio con Haftar, a lungo coccolato da Parigi. Squillante aggiungeva che “certamente questo grande attivismo della premier italiana e del suo governo non può far piacere ai nostri cugini francesi”. Timorosi del fatto che l’Italia, ricomponendo i cocci del vaso rotto da Sarkozy nel 2011, estrometta la Francia dal Paese.
L’ipocrisia francese
Da qui il fallo di reazione su Darmanin riguardando il tema più scottante per la coesione del governo, la questione migratoria che sul fronte geopolitico è indubbiamente secondaria ma sul piano narrativo centrale nel determinare la natura conservatrice e securitaria dell’esecutivo italiano. La Francia attacca nel momento in cui il governo di Macron vuole sgusciare dall’assedio della destra di Marine Le Pen dimenticando la base della crisi migratoria, che va di pari passo con il dissesto della Libia.
Paese conteso tra tribù, signori della guerra e eserciti che si accordano e scontrano a seconda dell’opportunità. E in cui, dal fatale 2011, l’ordine non regna più sovrano. Nostaglia di Gheddafi? Niente affatto. Ma se il ra’is era, indubbiamente, figura problematica e controversa, la Libia odierna non è più stabile e sicura di quanto fosse prima. Roma in questo contesto prova a stare a galla, e lo fa meglio di Parigi. Con sommo dispetto della Francia. Che va all’attacco, in maniera ipocrita, dimenticando la necessità di remare assieme a Roma per la stabilità del Mediterraneo.