Perché leggere questo articolo? L’Iran è al centro del Medio Oriente. Con l’esperto Alessandro Cassanmagnago ne scopriamo le traiettorie geopolitiche e interne.
L’Iran è un Paese chiave nello scacchiere del Grande Medio Oriente. L’attentato a Kerman compiuto dall’Isis nel quarto anniversario dell’uccisione del generale Qassem Soleimani nel quarto anniversario della sua uccisione in Iran ne ha rafforzato il senso di irrequietezza. Da Hezbollah agli Houthi, l’Iran è vicino a un’ampia serie di movimenti che si sono attivati dopo l’inizio dell’escalation a Gaza e i massacri di Hamas in Israele del 7 ottobre scorso. Ma cosa vuole davvero l’Iran? Che ruolo svolge nell’ordine internazionale? Ne parliamo con Alessandro Cassanmagnago, storico, politologo e studioso di Medio Oriente.
L’Iran dopo l’attentato del 3 gennaio si è proiettato con forza colpendo bersagli in Iraq, Siria, Pakistan. Questo mostra una tensione interna all’Iran nel contesto agitato del Medio Oriente?
La minaccia percepita in seguito all’attentato di Kerman va letta in relazione alla facilità con cui questi attentati sono avvenuti in Iran. Esiste pertanto un problema di sicurezza che la Repubblica Islamica non riesce a risolvere sia sul piano della minaccia dell’Isis che per quanto riguarda le operazioni del Mossad, che colpiscono facilmente i bersagli interni all’Iran. Questo allarma servizi segreti e ministero dell’Interno. L’Iran si è sentito chiamato a rispondere dopo Kerman.
Come la popolazione legge questa crisi?
C’è una parte della popolazione che fa riferimento anche alla maggioranza conservatrice del presidente Raisi che chiedeva a gran voce una risposta. Queste azioni iraniane da un lato rispondono alla logica della ritorsione e dall’altro sono una risposta politica tanto a Israele quanto agli Stati Uniti. Esiste una domanda ideologica da parte dell’Iran di mostrarsi capace di poter agire in forma deterrente contro ogni attacco esterno. Non a caso, dopo l’attacco dell’Isis l’Iran ha accusato Usa e Israele come promotori delle manovre terroristiche contro Teheran.
Insomma, una torsione “securitaria” anche a uso interno…
L’Iran vuole promuoversi nella regione come nemico dell’Isis e del terrorismo. C’è anche il fronte interno, che Raisi e i suoi vogliono calmare. Veder messe in luce deficienze così gravi sul fronte della sicurezza è preoccupante.
Tutto questo si inserisce nel caos della regione sconvolta dalla guerra a Gaza. Come vede Teheran lo scenario?
La posizione dell’Iran sulla guerra a Gaza è complessa. Chiaramente, così come il conflitto ha radici profonde e non è iniziato il 7 ottobre anche il posizionamento di Teheran è complesso. E va letto anche alla luce del fatto che Israele e Iran si combattono più o meno indirettamente da anni tra Iraq e Siria. Il conflitto ha alzato la tensione, ma la guerra a Gaza è confluita nel più ampio campo del conflitto-ombra tra Tel Aviv e Teheran. Il discorso a parte che terrei isolato è quello del Libano. Anche perché parliamo di un Paese con un’intrinseca multipolarità culturale e religiosa su cui le tensioni Iran-Israele si inseriscono.
Che novità ci sono state nel confronto tra le due potenze dopo il 7 ottobre?
Le modalità con cui Israele ha colpito in Libano, Siria e Iraq fanno parte della grammatica dello scontro tra le due potenze. La vera novità del conflitto è sul piano della tensione. Così come a Gaza la guerra si alza d’intensità, anche tra Israele e Iran vecchie dinamiche esplodono con maggior asprezza.
L’Iran è stato accusato di controllare gli Houthi yemeniti. Come ha reagito ai raid anglo-americani dell’11 gennaio?
Anche sul fronte della reazione iraniana agli attacchi anglo-americani in Yemen la questione è su più livelli. Parto da un assunto. E cioè il fatto che non si può negare che a Teheran la reazione di primo impatto potrebbe esser stata di sostanziale soddisfazione. Non per il fatto in sé, ma per la concezione del fatto che Usa e Regno Unito, colpendo gli Houthi, li hanno automaticamente considerati attori da tenere in gioco. Colpendoli hanno valorizzato il loro bersaglio, che non è più un gruppo sparuto di ribelli in campo in quella che cinicamente si potrebbe considerare una guerra di serie B per le cancellerie internazionali. Oggi gli Houthi entrano in Serie A e lo fanno grazie a Teheran, che li ha armati e sostenuti. Al contempo, tenderei però a escludere l’idea del telecomando iraniano che pilota gli Houthi.
Come è definibile, in quest’ottica, la partnership tra Repubblica Islamica e Houthi?
Quella tra Iran e Houthi è un’alleanza di convenienza. Ai ribelli conviene avere il cappello e l’appoggio di Teheran, soprattutto sul piano militare, per sfoggiare le loro capacità offensive. Risultato raggiunto, visto l’impatto globale del blocco degli stretti. L’Iran al contempo ha interesse a far sì che le azioni degli Houthi siano percepite come una sua proiezione. Questo dà prestigio a Teheran a livello regionale. Ma Teheran sa che deve giocare dentro le linee rosse oltre le quali c’è l’ipotesi di un conflitto aperto e convenzionale con gli Stati Uniti e l’Occidente. Ritengo che questo conflitto sarebbe deleterio per entrambe le parti, ed è un’ipotesi per ora ancora remota. Anche se negli Usa c’è una componente congressuale, politica e ideologica che spinge per un più duro contenimento della Repubblica Islamica.
Insomma, anche nel Mar Rosso Teheran si muove su un crinale stretto…
Gli iraniani, in sostanza, devono giocare su due fronti. Da un lato evitare che gli Houthi vengano spazzati via, cosa che i ribelli mi sembrano in grado di fare autonomamente. Dall’altro evitare un’escalation: e per questo ritengo che consigli interessati arrivino dagli uomini di Teheran presso Ansarallah nella capitale yemenita Sana’a che gli Houthi occupano da anni. Del resto, un blocco prolungato dei commerci danneggerebbe i preziosi rapporti che l’Iran ha con attori come la Cina. Per questo sarebbe interessante sapere se Pechino e Teheran si stanno parlando in queste settimane.
Come la Cina vede la questione mediorientale?
La Cina ha favorito l’avvicinamento iraniano-saudita e il riavvicinamento della Siria alla Lega Araba. Prima del 7 ottobre si pensava a una fase di distensione del Medio Oriente su più direzioni. Abbiamo assistito negli anni scorsi a tentativi di sabotare gli accordi di Abramo tra Israele e Paesi arabi e oggi a colpi agli accordi di Pechino tra Iran e Arabia Saudita. Nel fuoco incrociato crollano i progetti di convivenza geopolitica costruiti in Medio Oriente. Un tema di cui si sta poco parlando è il fatto che la componente conservatrice più vicina al presidente e all’ayayollah Ali Khamenei è divisa sul ruolo da tenere di fronte a questa destrutturazione.
Come si dividono i poteri in Iran?
Da un lato c’è la forza Quds, il gruppo dei Pasdaran, il mondo degli ufficiali combattenti veterani delle guerre del generale Soleimani che, chiaramente, non vedevano bene le pacificazioni costruite dal governo con attori come Arabia Saudita e, in prospettiva, l’Egitto e la Turchia, con la quale pesano i rapporti ambigui con l’Azerbaijan percepito minaccioso per le sue rivendicazioni sulla minoranza nazionale presente in Iran. Dall’altro c’è una componente politico-diplomatica pro-distensione in larga parte civile e dalla presidenza di Raisi, che ha speso molto capitale politico sulla distensione. Un termometro del futuro possibile processo distensivo sarà il futuro della normalizzazione tra Iran ed Egitto, col secondo toccato duramente nei suoi interessi dal blocco del Mar Rosso che molte cancellerie addebitano all’Iran.
Esiste sulla scia di questa divisione una prospettiva di riapertura del dialogo sul nucleare con l’Occidente?
Non vedo speranze che si riapra il tavolo negoziale. A Davos il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Rafael Grossi, è stato netto: l’Iran sta correndo spedito per raggiungere lo stadio di potenza nucleare in potenza e favorire l’arricchimento dell’uranio. Le parole di Grossi e il raffreddamento tra Iran e Occidente legato alla crisi di Gaza e del Mar Rosso pesano come macigni. E poi ci sono le elezioni presidenziali Usa: un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca consoliderebbe l’irrigidimento Usa. Anche se nemmeno Joe Biden è stato, nella sua presidenza, il prototipo del leader dialogante con l’Iran.
Come l’Iran vive, sul fronte interno, questa fase critica?
Sul fronte interno l’Iran al momento vive una fase di minore tensione rispetto alla fase del settembre 2022, quando iniziarono le proteste delle donne e degli studenti. L’Iran è un Paese con una popolazione numerosa, giovane e scolarizzata con prospettive di crescita importante che sono oggettivamente frenate da una serie di fattori. In primo luogo, la svolta sempre più autocratica del governo e l’aumento della sorveglianza, come la legge sull’hijab obbligatorio conferma. Segue l’esclusione dal dialogo pubblico di molti candidati riformatori e moderati per il Parlamento e le cariche apicali. Ma la questione più grave restano i problemi economici. L’Iran continua ad avere grandi difficoltà non necessariamente legati alla questione delle sanzioni.
Che questioni vivono come prioritarie gli iraniani?
Le sanzioni Usa e occidentali hanno prodotto danni devastanti. Il governo di Teheran ci ha messo decisamente del suo per aggravare le condizioni con una gestione sconsiderata dell’inflazione e per un totale disinteresse a risolvere il problema delle disuguaglianze. L’Iran ha una popolazione con stipendi bassi e la popolazione si scontra con problemi quotidiani come l’approvvigionamento energetico. Non è un caso che gli attacchi hacker israeliani spesso colpiscano le pompe di benzina in Iran. C’è un grave deficit delle infrastrutture energetiche in tutta la Repubblica Islamica. L’Iran è un Paese ricchissimo di petrolio e gas che non riesce a garantire il sicuro riscaldamento della popolazione in inverno. Questo acuisce il malcontento: la saldatura tra richieste per i diritti civili e protesta economica è la vera problematica che il regime deve affrontare.
Esistono, in quest’ottica, prospettive di cambiamento politico?
Se ci si chiede se esistano forze alternative che possono emergere politicamente nel panorama attuale, la risposta è per ora negativa. Non è ancora emersa in Iran un’opposizione organica al governo degli ayatollah e anche i riformisti non hanno più una base sociale solida come ai tempi del Movimento Verde del 2009. Non ci sono ancora le avvisaglie. Vedremo come si evolveranno le situazioni interne ora che le elezioni parlamentari del 2024 porteranno ad avanzare il ciclo politico che si concluderà nel 2025 con le presidenziali. E se la protesta sociale e quella economica possono fungere da pungolo in un sistema molto bloccato.