Perché questo articolo potrebbe interessarti? Il divario economico tra Europa e Africa, seppur ancora molto ampio, è comunque diminuito negli ultimi anni. Eppure dal continente si continua a partire e i flussi migratori appaiono in costante aumento: non sempre l’espressione “aiutiamoli a casa loro” si rivela veritiera. Un vero e proprio paradosso dell’immigrazione.
Si emigra perché si è più poveri e quindi, se si aiutano i Paesi poveri a svilupparsi, la pressione migratoria sull’Europa diminuirà. È questa l’equazione più diffusa, soprattutto in Italia, quando si parla di contrasto all’immigrazione irregolare. Un’equazione traducibile con l’espressione “aiutiamoli a casa loro”, usata in modo bypartisan dai partiti negli ultimi decenni.
Per la verità, la situazione appare leggermente diversa. I dati dicono che considerare l’immigrazione come un problema economico o politico appare, nella migliore delle ipotesi, approssimativo. Ci sono infatti anche altre variabili. C’è l’aspetto culturale, c’è quello relativo all’appartenenza a una specifica classe sociale. E poi c’è un dato che più di tutti invita a riflettere: negli ultimi decenni, pur rimanendo molto ampio, il divario economico tra Africa ed Europa si è sensibilmente ridotto. Eppure si continua a partire.
La crescita economica africana
Seppur in maniera eterogenea, l’economia del continente africano sta continuando a cresce. Un trend partito da lontano e in grado di sopravvivere anche alle vicende legate al coronavirus. Secondo la Banca Africana per lo sviluppo, l’economia nel continente nel 2022 è cresciuta del 3.8%. Nel 2021 il dato ha fatto segnare un 4.8%, una media di gran lunga superiore a quella globale. Per l’anno in corso e per il 2024, la stima prevista è del 4%.
Il dato complessivo risente dell’eterogeneità dell’Africa. Ci sono infatti alcune aree dove, a causa delle difficoltà politiche e dei conflitti, i tassi di crescita sono quasi nulli se non negativi. In compenso, seno sempre di più quei governi che registrano trend positivi e vicini alla doppia cifra percentuale. Il Ruanda ad esempio lo scorso anno ha assistito a una crescita del Pil pari al 7.9%. L‘Etiopia, nonostante il conflitto nel Tigray, è arrivata a crescere del 6%. Niger e Senegal nel 2023 potrebbero arrivare a un incremento complessivo del Pil del 9%. Previsioni in linea con quelle fatte dalle Nazioni Unite. Il divario con l’Europa e con le economie industrializzate è ancora importante. Ma è minore, seppur di poco, rispetto agli ultimi anni del XX secolo. L’immigrazione continua a essere però molto rilevante.
Cosa dicono i numeri sull’immigrazione
Assodato quindi che l’economia africana è già in crescita e in alcuni casi è già ben avviata, ci sono altri dati di cui tener conto sul fronte migratorio. TrueNews ne ha parlato con Maurizio Ambrosini, sociologo e tra i principali studiosi dei fenomeni migratori in Italia. Interessanti le cifre da lui fornite. In primis, quella relativa ai movimenti migratori internazionali: si stimano infatti 280 milioni di persone che hanno lasciato le case negli ultimi anni, ma i poveri nel mondo sono (purtroppo) molti di più. In poche parole, non tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà abbandonano i propri territori. Segno di come la povertà stessa non sempre è la ragione primaria per cui si emigra.
In secondo luogo, tra i 280 milioni di migranti solo una minima parte arriva da Paesi più poveri. Al contrario, le aree da cui si parte più frequentemente non sono quelle generalmente indicate come le meno sviluppate del pianeta. Le migrazioni hanno a che fare con Paesi quali Messico, India, Russia, Cina. “Certamente – ha dichiarato Ambrosini – le migrazioni hanno a che fare con le disuguaglianze, ma le cifre dimostrano che non sempre i grandi spostamenti sono causati esclusivamente dalla povertà”. In Italia, per la cronaca, i migranti arrivano soprattutto da Romania, Albania, Ucraina (anche prima della guerra), Filippine, Cina e Marocco.
Non emigrano i più poveri
Occorre considerare poi un altro aspetto. Come dichiarato sempre da Ambrosini, la migrazione è figlia di un processo selettivo. Per partire e spostarsi in altri Paesi, spesso molto lontani da casa, servono soldi e risorse. I migranti che arrivano in Europa quindi raramente rappresentano le classi più povere delle aree di origine. Molti di loro, fanno parte delle classi medie. “Viene stimato che chi ha un reddito sotto i mille Euro non può partire – ha spiegato Ambrosini – mentre chi vive con redditi superiori agli ottomila Euro non è intenzionato a partire. La migrazione comprende quindi la fascia media della popolazione del Paese di origine”.
Paradossalmente quindi, se in un Paese in via di sviluppo si forma una forte classe media, è possibile aspettarsi un’impennata di partenze. Lo sviluppo africano sopra richiamato, potrebbe portare a maggiori tentativi, da parte di migliaia di persone, di andare in Europa con l’obiettivo di difendere o migliorare il proprio standard di vita. Non solo, ma nell’immediato un maggior sviluppo incentiva le partenze: ci sono infatti più soldi e più risorse da spendere per andare via. Ecco spiegato allora il motivo per il quale, nonostante un minor divario economico tra Europa e Africa, dal continente a sud del Mediterraneo si continua a partire.
Aiutarli a casa loro nel lungo periodo
L’aiuto da destinare ai Paesi in via di sviluppo per arginare il problema migratorio può essere importante solo nel lungo periodo. “Gli effetti – ha precisato Ambrosini – si vedono solo a distanza di 20 o 30 anni. Lo possiamo vedere anche nella storia del nostro Paese. L’Italia, nella fase di industrializzazione, è stato un Paese di forte emigrazione. Poi il contesto è cambiato negli anni ’70, quando uno sviluppo importante ha raggiunto l’intero territorio”. Si può quindi lavorare per aiutare una nazione a vincere la povertà e ad evitare di dare origine a una forte pressione migratoria, ma occorre mettere bene in conto che gli effetti positivi arriveranno soltanto dopo alcuni decenni.
“Sempre a patto – ha poi concluso Ambrosini – che ci siano anche le condizioni politiche ideali. Deve esserci una certa stabilità, la classe media deve ritenersi al sicuro e certa di salvaguardare il proprio status, altrimenti si continuerà a partire”.