Perché leggere questo articolo? Tra Niger, Algeria e Etiopia il Piano Mattei è in bilico. Vediamo cosa mina la strategia africana del governo Meloni.
A Enrico Mattei questa, forse, proprio non bisognava farla. Usare il nome del fondatore dell’Eni, protagonista della Resistenza cattolica e stratega dello sviluppo e della ricostruzione economica italiana per il piano africano del governo Meloni era parsa, nell’ottobre scorso, una prospettiva strategica interessate. E al presidente del Consiglio va dato atto di un rinnovato e serio interesse per l’Africa e le dinamiche del suo sviluppo. Basato sulla ricerca di un crescente posizionamento dell’Italia sull’energia, il contrasto al terrorismo, il potenziamento della democrazia, la crescita dei commerci e degli investimenti. Ma a dieci mesi dalla nascita del governo, la strategia italiana per il continente più conteso al mondo rischia di impantanarsi.
Tre dei Paesi chiave per il Piano Mattei rischiano di assestare altrettanti colpi alla forza della penetrazione di Roma in Africa: Niger, Algeria e Etiopia. Per capire perché bisogna partire dall’atto più delicato avvenuto in Africa in questa estate rovente. Ovvero il golpe con cui il 26 luglio scorso Mohammad Bazoum, presidente legittimo del Niger, è stato rovesciato.
In Niger l’Italia non riesce a fare pressione sui golpisti
Se Unione Europea, Germania, Francia e Stati Uniti sono entrati in gamba tesa sui generali golpisti guidati da Abdourahamane Tchiani e hanno iniziato a studiare contromosse politiche, Roma è stata presa dall’imbarazzo. La presenza di trecento militari italiani in Niger e il timore che rispondere al golpe possa creare un buco nero migratorio capace di travolgere, via Sahara e Libia, le coste italiane, spaventa il governo Meloni. Che alla prova dei fatti ha visto ogni arma spuntata nella sua strategia di persuasione.
Meloni aveva, a dicembre, accolto Bazoum a Palazzo Chigi con tutti gli onori. Il governo aveva – con lungimiranza – confermato il Niger come primario alleato regionale di Roma. Tale svolta imporrebbe una seria presa di posizione italiana sul golpe. Nulla di questo è avvenuto: ci si è barcamenati tra richieste di un confronto per un governo legittimato internazionalmente, ammonimenti alla Francia, che sta tenendo un profilo basso nella crisi, perché non agisse da sola e un imbarazzo nel giudizio dei golpisti.
In quest’ottica le parole del ministro della Difesa Guido Crosetto che ha affermato di non aver visto da parte della giunta golpista, il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria, atteggiamenti ostili verso i militari italiani sembrano più un’ammissione di debolezza. E mentre il Niger scivola verso Cina e Russia, un Paese chiave per il Piano Mattei è sempre più fuori dalle disponibilità italiane.
Algeria, crocevia del Piano Mattei, nel bene e nel male
Molto meno preoccupante, invece, la situazione interna dell’Algeria. Paese già valorizzato da Mario Draghi come primo fornitore di gas dell’Italia e visitato dall’ex premier e da Meloni con attenzione, oltre che dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’Algeria ha in Mattei, nel suo passato di lotta per l’indipendenza dalla Francia, un punto di riferimento: la vicinanza tra l’Eni e il Fronte di Liberazione Nazionale algerino è provata come consolidata. Dunque Algeri è crocevia concreto e simbolico del Piano Mattei.
Il Paese mostra quanto sia complesso per l’Italia chiedere un’influenza grossomodo esclusiva nell’area. Algeri è diventata, negli ultimi diciotto mesi, il primo fornitore di gas dell’Italia. Ha soppiantato la Russia dopo la fine dei contratti per l’invasione dell’Ucraina. Roma e Algeri hanno professato grande vicinanza e amicizia. Ma a giugno il governo del presidente Abdelmadjid Tebboune ha dimostrato, assieme all’Egitto, che l’attenzione all’Italia non si sovrappone a una “esclusiva” nei rapporti con Roma.
L’Algeria ha chiesto di entrare nei Brics, l’organizzazione di cui fanno parte Cina e Russia. Il forum delle economie in via di sviluppo fa gola a Algeri. La cui adesione porterebbe i rivali dell’Occidente nel cortile di casa dell’Italia. Dando un ulteriore scacco al Piano Mattei. E invitando l’Italia a rimodulare con realismo le sue ambizioni verso il Paese della sponda sud del Mediterraneo.
L’Etiopia tra Piano Mattei e instabilità
Alla Cop27 di Sharm el-Sheik, in quell’Egitto che resta il Paese maggiormente vicino a Roma della regione, Meloni a novembre aveva poi cercato la sponda con un ulteriore alleato africano. Parliamo dell’Etiopia del premier Abiy Ahmed. Ex premio Nobel per la Pace tornato dopo un biennio di “quarantena” nella scena internazionale legata al devastante conflitto in Tigray.
Meloni ha visitato l’Etiopia ad aprile, ha rafforzato la partnership avviata due mesi prima con la visita di Ahmed a Palazzo Chigi e mostrato la volontà italiana di investire in Etiopia. 180 milioni di euro in diversi settori nell’ambito dell’Ethiopian Italian Cooperation Framework 2023-2025 sono entrati come primo investimento strategico.
Meloni ha poi ricordato che “sul settore della difesa ci piacerebbe lavorare a una cooperazione maggiore” con l’Etiopia. Dopo aver costruito dighe e altre infrastrutture, ora Roma punta a fare dell’Etiopia il gendarme del Corno d’Africa. La “spalla” della presenza militare di Roma a Gibuti e nelle acque ove si contrasta la pirateria del Mar Rosso, oltre che il garante della stabilità della Somalia. Ma una settimana dopo il golpe in Niger dall’Etiopia è arrivata una nuova botta al Piano Mattei. Il 4 agosto Ahmed ha decretato uno stato d’emergenza semestrale per l’esplosione di conflitti tra la milizia dell’etnia Amhara e l’Esercito di Addis Abeba.
Dopo 3mila morti negli scontri nella regione nord-occidentale nel Paese, la polizia federale etiope ha arrestato centinaia di persone ad Addis Abeba. La misura è stata criticata dalla Commissione etiope per i diritti umani affermando che “c’è stato un arresto diffuso di civili di origine etnica Amhara”. Ahmed, che è di etnia Omoro, rischia di vedere l’Etiopia affrontare la sua seconda grande crisi etnica del suo mandato. Sarebbe un disastro per le prospettive italiane. E anche uno scacco alla volontà di Roma di armare un regime accusato di violazioni dei diritti umani. Una grana ulteriore che si aggiunge a quelle nigerine e algerine e lascia presagire tempi difficili per il Piano Mattei.