Perché leggere questo articolo: Perché tutti i movimenti progressisti riempiono le piazze pro-Palestina? E che rischi ci sono nel confondere antisionismo e antisemitismo? Ne parliamo col professor Andrea Molle.
Da Black Lives Matter a Greta Thunberg, la guerra tra Israele e Palestina porta in campo contro Tel Aviv, in tutto l’Occidente, molti movimenti di matrice progressista nati per altri scopi. In Italia spesso le “invasioni di campo” di un movimento in un altro campo sono considerate all’ordine del giorno (si pensi alla recente polemica dell’Anpi per la nomina nel cda del Teatro Piccolo di Geronimo La Russa), tanto che sembriamo darci poco peso. Ma il tema è caldo e dinamico: spesso i movimenti rivendicativi, in nome della caccia all’unità delle cause, rischiano di snaturare sé stessi. Le forti critiche che hanno investito Blm e il movimento ambientalista di Greta, negli Usa i primi, in Germania e Olanda la seconda, lo testimoniano.
Ma da dove nasce l’esplosione pro-Palestina dei movimenti progressisti e perché queste cause sono così primarie nella loro lotta? Per capirlo abbiamo parlato con un esperto dei movimenti radicali come il professor Andrea Molle, docente presso la Chapman University (Orange, California) dove insegna Relazioni Internazionali, Teoria dei Giochi e Metodi per la Ricerca.
Professor Molle, come mai tutte queste movimentazioni pro-Palestina?
“Ci troviamo di fronte a movimenti con diverse mission aventi una narrazione unica pro-Palestina. La ragione è chiara. Tutti questi movimenti si riconoscono in una visione unica definita dalle narrazioni postcoloniali, dalla cosiddetta intersezionalità, un concetto che è arrivato alla ribalta negli Anni Ottanta e prescrive che tutti i movimenti, indipendentemente dalla posizione su un tema dominante nella loro narrazione, devono convergere anche quelle altre cause considerate affini”.
Un’idea di unità delle lotte e inscindibilità dei fini, dunque?
“L’idea è che gli oppressi siano tutti uguali e che la soluzione di un problema passa dalla risoluzione di tutti gli altri, e viceversa. Il movimento ecologista di Greta Thunberg non si limita, ad esempio, al cambiamento climatico ma deve per forza di cose includere nella propria piattaforma temi come la lotta alla povertà, l’antirazzismo o, come visto in queste giornate, la difesa a spada tratta dei palestinesi. Questo accade proprio grazie al fatto che questi movimenti, per quanto vogliano farsi passare come sofisticati e capaci di parlare di complessità, tale complessità non la praticano. La visione del mondo che hanno è semplicistica e lineare”.
Il caso americano di Black Lives Matter, ad esempio, ha suscitato scalpore…
Black Lives Matter è stato uno dei casi più sorprendenti di presa di posizione. Alcuni suoi esponenti hanno difeso Hamas, altri hanno addirittura celebrato gli eventi del 7 ottobre come crocevia per la liberazione della Palestina. Di fronte a critiche fondate sui loro stessi principi e all’attestazione che la morte di un palestinese non è meno importante di quella di un ebreo rispondevano con la retorica che avevano rifiutato ai tempi della morte di George Floyd.
La complessità non dovrebbe essere la via maestra per le riflessioni di questi movimenti?
“Quando noi andiamo a valutare le azioni di questi gruppi non dobbiamo essere sorpresi dal fatto che siano dominati da una narrazione specifica e partigiana degli eventi storici. Una visione che richiama alla complessità ma è in realtà molto semplicistica. La parola “complessità” è usata per zittire le controparti di fronte alle critiche”.
Ritiene possibile aprire un discorso sull’ascesa dell’antisemitismo in Occidente in relazione a queste critiche?
Questo tema di cui abbiamo parlato impatta molto il tema dell’antisemitismo. La vulgata vuole che per antisemitismo si vuole intendere un mondo complesso di intolleranze verso una serie di popoli in cui gli ebrei appaiono minoranza. Ma la storia del fenomeno ci ricorda che dentro la discriminazione nei confronti degli ebrei, che possiamo chiamare giudeofobia, c’è una componente legata all’estremo livore di molte frange, anche di sinistra radicale, contro Israele e il suo governo.
L’antisionismo che vediamo oggi è a suo avviso contraddistinto da connotati antisemiti?
Quello di quindici-venti anni fa era molto focalizzato alla critica ad Israele e alle sue politiche pubbliche, soprattutto quelle relative all’occupazione di Gaza e della Cisgiordania. L’antisionismo di oggi, che vediamo nelle piazze con cori pienamente disdicevoli, con l’aumento degli episodi di intolleranza e con una narrazione che sfocia nella pura inimicizia contro Israele, è chiaramente antisemita. Non ci sono più alcuni dubbi. In questo modo si elimina la possibilità di criticare in maniera legittima il governo israeliano dove è legittimo farlo. Perché tutto viene semplificato nell’equazione: Israele uguale sionisti, sionisti uguale ebrei, ergo ebrei cattivi.
Spesso i critici di Israele paragonano sionismo e islamismo. Ma si può davvero tracciare un parallelismo?
Il problema del parallelismo tra sionismo e islamismo, visti entrambi come fenomeni intolleranti e con parallelismi. Ma il sionismo è un movimento nazionalista, nato per l’indipendenza di un popolo e la sua autodeterminazione come comunità nazionale. L’islamismo è un fenomeno politico volto a re-istituire una sorta di Califfato islamico che reclama una continuità territoriale e vede Israele come un problema da eradicare, un corpo estraneo. I gruppi che attaccano senza troppa distinzione Israele non confondendo tra antisionismo e pulsioni ostili all’ebraismo sono gli stessi che tacciano di islamofobia ogni critica all’islamismo. Questo è un altro dei grossi problemi della situazione attuale quando parliamo di queste dinamiche.
Come si può risolvere questo problema comunicativo e storico, a suo avviso?
“Risulta importante, come dicono molti studiosi, ricordare che una dei volti dell’antisemitismo è di matrice islamista. E vede nella distruzione di Israele e nella sudditanza degli ebrei una tappa fondamentale per la ricostruzione di un mondo ritenuto più “puro” pre-1948. Tutto questo dimenticando, ovviamente, la grande componente di ebrei sefarditi e cittadini arabi nella stessa Israele, presentata da questa propaganda come una cellula europea usurpatrice”.