L’ospitata televisiva del ministro Cingolani su Rai 2, lo scorso 24 novembre, non è passata inosservata. Ai microfoni di Tg2 Post il ministro della Transizione ecologica aveva criticato il sistema scolastico italiano, che darebbe troppo spazio ai temi umanistici rispetto a quelli tecnico-scientifici. «Il problema è capire se continuiamo a fare tre o quattro volte le guerre puniche nel corso di 12 anni di scuola – ha dichiarato Cingolani – o se caso mai le facciamo una volta sola, ma cominciamo a impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata e più moderna, a partire dalle lingue e dal digitale».
Cristiano Corsini, docente di Pedagogia sperimentale all’Università Roma tre, ci aiuta ad analizzare i programmi e criticità dell’impostazione degli insegnamenti nelle nostre scuole.
Professore, al di là del fatto che un fact checking di Pagella Politica ha dimostrato come le Guerre Puniche non si studino quattro volte, le rigiro l’interrogativo del ministro: che senso ha studiare le Guerre Puniche tre o quattro volte? C’è qualcosa di male nella riproposizione di un insegnamento?
In effetti da anni a scuola le Guerre Puniche si affrontano due volte, dunque non tre né quattro come lamentato da Cingolani. Ovviamente capita a chiunque di sbagliare, e questo errore sarebbe del tutto secondario se solo non segnalasse un problema molto più serio. La nostra classe dirigente parla molto spesso di scuola e sulla scuola assume decisioni senza studiare, senza informarsi seriamente, senza ascoltare docenti, dirigenti, studentesse e studenti. Il Ministro Cingolani rappresenta perfettamente la nutrita schiera di individui che dà per scontato che la scuola attuale sia identica a quella di venti, trenta, quaranta o cinquant’anni fa.
Detto questo, non credo ci sia nulla di male nell’affrontare due o più volte lo stesso argomento o lo stesso contenuto. Temo, al contrario, che ci sia proprio un problema di fondo nell’inquadrare così la faccenda, e questa è un’altra cosa che non funziona in quelle parole. L’idea di fare spazio a qualcosa di nuovo togliendo qualche altro contenuto rimanda a una visione statica e a compartimenti stagni della didattica, come se il fine dell’insegnamento fosse quello di trasmettere contenuti e non quello di sviluppare la capacità di usare quei contenuti per trasformare la realtà.
Esistono “nuove materie” da insegnare per impartire una “formazione più avanzata”?
No, non credo che sia utile inserire nuove materie. Le discipline rappresentano straordinarie formalizzazioni di un insieme di attività, più o meno speculative, che hanno consentito alla nostra specie di arrivare sin qui. Sono delle lenti, sguardi sul mondo che fanno sì che noi si possa affrontare la realtà in maniera più ricca e più significativa. Se insegniamo qualcosa non è perché abbiamo vinto una classe di concorso, ma perché la civiltà ha formalizzato certi suoi modi di pensare la realtà e agire su di essa, e ha ritenuto opportuno tramandarli per educare un certo sguardo sul mondo, sviluppando abiti di riflessione e di trasformazione della realtà. Prima di chiederci se vogliamo inserire nuovi saperi disciplinari, interroghiamoci sull’efficacia di quelli attuali. Siamo davvero sicuri che certi nuovi contenuti siano tanto slegati dai saperi disciplinari che abbiamo costruito da rendere necessaria l’introduzione di una nuova materia? Insomma, a me pare che si tenda ancora a contrapporre conoscenze e competenze. Si tratta di una contrapposizione pedagogicamente infondata, le competenze senza conoscenze sono vuote e le conoscenze senza competenze sono cieche. Una didattica utile allo sviluppo di competenze non può che lavorare attraverso conoscenze disciplinari facendole agire come strumenti per affrontare problemi complessi. D’altro canto, se non impiego le conoscenze disciplinari come strumento per conferire senso alla realtà, difficilmente le acquisirò in maniera significativa e durevole.
Più in generale, ha senso mettere in competizione uno studio umanistico con la cultura tecnica?
No, non mi pare molto sensato mettere in competizione studi umanistici e scientifici. Anzi, faccio fatica a capire come li si possa coltivare adeguatamente attraverso questa contrapposizione. In questo anno e mezzo di pandemia abbiamo visto da un lato alcune figure di spicco del mondo filosofico diffondere sciocchezze sulla presunta inefficacia e illegittimità di atti di contrasto al contagio – che come prevedibile alla prova dei fatti si sono al contrario rivelati complessivamente efficaci e giusti. D’altro canto, abbiamo anche ascoltato una parte del mondo scientifico cianciare di morte del virus o di scuole al riparo dal contagio senza fornire alcuna evidenza, dando inoltre per sicure una serie di conoscenze che proprio in quanto frutto di lavoro scientifico avrebbero dovuto essere semplicemente più o meno probabili di altre.
In pratica, troppo spesso è mancato un atteggiamento scientifico, e l’atteggiamento scientifico riguarda tanto la cultura umanistica quanto quella scientifica. L’atteggiamento scientifico è la capacità di sottoporre a esame critico le nostre idee, le nostre scelte, le nostre abitudini e di supportare sia con la logica sia con l’evidenza empirica le nostre argomentazioni. L’atteggiamento scientifico richiede piena consapevolezza sia del fatto che le evidenze empiriche non parlano mai da sole ma sono sempre riconducibili alle idee che le hanno prodotte, sia del fatto che le nostre idee vanno giudicate sulla base delle conseguenze che producono. È un atteggiamento di apertura e di onestà intellettuale e credo che ogni ambito disciplinare possa concorrere a svilupparlo.
Cosa genera questo cortocircuito?
Insomma, prima di esprimere la nostra opinione dovremmo prenderci la briga di informarci. E invece assistiamo costantemente a un profluvio di posizioni antiscientifiche. In particolare sulla scuola spesso si accreditano come scientifiche delle opinioni per il solo fatto che vengono espresse attraverso numeri o percentuali. Per esempio, una parte rilevante dell’opinione pubblica ha creduto davvero che le scuole non fossero fonte di contagio sulla base di analisi che però di scientifico non avevano nulla, dato che non c’era trasparenza sui dati né coerenza nel loro impiego. Oppure si dà credito ad analisi che travisano indagini come quelle realizzate dall’Invalsi o dall’Ocse, lasciando intendere che le lacune che riscontriamo nell’alfabetizzazione della popolazione siano da attribuire a determinate scelte didattiche, senza però controllare se quelle ricerche ci consentano o meno di trarre simili inferenze. Nello specifico, non lo fanno. Il problema è che il discorso sulla scuola è generalmente dominato dall’ansia di confermare luoghi comuni e stereotipi retrivi. Facciamo un esempio. I dati delle indagini internazionali ci dicono che abbiamo problemi in lettura o in matematica. Bene, c’è chi usa tali dati allo scopo di confermare lo stereotipo secondo cui le nuove generazioni rispetto a quelle più anziane avrebbero maggiori problemi nel comprendere un testo o nel fare i conti. Insomma, ascoltiamo continuamente che “i giovani non sanno più leggere” e altre amenità.
Cosa dicono i dati?
Sono proprio i dati delle indagini a sconfessare queste conclusioni. In primo luogo, le indagini internazionali raccolgono informazioni su questi ambiti dagli anni Settanta e non riscontrano alcun peggioramento nelle prestazioni della popolazione testata. In secondo luogo, l’indagine OCSE-PIAAC, che confronta i livelli di rendimento in lettura e matematica di campioni rappresentativi dai 16 ai 65 anni, rileva che in Italia le fasce più giovani della popolazione ottengono migliori risultati in lettura e matematica e che questa differenza è superiore alla media dei paesi partecipanti.
La situazione è paradossale: abbiamo gente di una certa età – che magari lavora nelle redazioni di prestigiosi organi d’informazione o che viene spesso invitata in seguitissimi salotti televisivi – che sostiene che le giovani generazioni non sono in grado di comprendere un testo ma basa questa opinione sulla mancata comprensione di testi piuttosto semplici da comprendere, come le brevi ed elementari note distribuite alla stampa sui rapporti delle indagini. Ne abbiamo riprova quando leggiamo certi commenti sulle indagini internazionali e ne abbiamo avuto conferma quando, quest’estate, il rapporto INVALSI è stato totalmente travisato e il peggioramento in alcuni dei risultati avvenuto tra 2019 e 2021 è stato erroneamente attribuito alla didattica a distanza, sebbene, come ha ribadito lo stesso presidente dell’INVALSI, Roberto Ricci, il rapporto non attribuisse alla DaD la responsabilità dei problemi riscontrati nel 2021.
Il mercato del lavoro a cui, secondo la visione predominante, la scuola dovrebbe preparare, funziona per competenze?
Il discorso pubblico sul rapporto tra istruzione e lavoro è dominato da due asimmetrie che si autoalimentano. In primo luogo, si trasmette l’idea che il mondo del lavoro sia ansioso di offrire posti a gente critica e dinamica che la scuola e l’università farebbero fatica a formare. In secondo luogo, si dà per scontato che il mondo del lavoro regoli quello dell’istruzione e che quello dell’istruzione non abbia da insegnare nulla a quello del lavoro. Mi sento di dire che le cose vanno diversamente.
La prima asimmetria è relativa alla descrizione dei due contesti. Spesso si contrappone una visione edulcorata del mercato del lavoro alla descrizione di una scuola in eterna crisi. Per esempio, si tende a dare per scontato che le nostre aziende siano alla spasmodica ricerca di gente competente che la scuola non riesce a formare, magari declinando tale richiesta facendo uso, a seconda del momento, di termini più o meno in voga. Oggi si parla di soft skills, domani probabilmente si parlerà di green skills. Io temo che la realtà sia più eterogenea e più problematica. Per esempio, il recente rapporto CENSIS indica che circa un terzo di chi lavora possiede al massimo la licenza media e che, anche tra la forza occupata più giovane, chi ha lauree è in netta minoranza. Insomma, in generale non mi pare che il mercato del lavoro italiano sia alla ricerca di personale formato più di quanto non ricerchi gente a basso costo. Il CENSIS rileva che l’80% della popolazione italiana non riconosce una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato. Questa percentuale arriva all’87% tra le giovani generazioni. Nel complesso, le aziende italiane non mi pare siano ai primi posti al mondo o in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo e abbiamo una quota notevole di giovani competenti che vanno all’estero. La scuola ha già le sue responsabilità, non merita che le vengano scaricate addosso anche quelle altrui.
La seconda asimmetria è più esplicitamente politico-culturale. Dare per scontato che il mondo del lavoro abbia da insegnare qualcosa a quello dell’istruzione e che quello dell’istruzione non abbia da insegnare nulla a quello del lavoro è un errore gravissimo, che a mio avviso ha compromesso alla base molte esperienze di alternanza scuola-lavoro e rischia di compromettere altre iniziative in atto o a venire.
Per concludere, come potrebbe risolversi il collegamento scuola-lavoro?
Io credo che sia importante mettere in dialogo scuola, università e mondo del lavoro, ma dovremmo evitare di abbracciare una visione colonialista secondo la quale le aziende dettano legge su quel che va fatto in aula. Se crediamo davvero che diversi sguardi arricchiscano i diversi contesti, dobbiamo metterci nell’ordine delle idee che anche studentesse, studenti e docenti abbiano qualcosa da dare al mondo del lavoro. Per esempio, l’indagine IEA-ICCS evidenzia discreti livelli di educazione alla cittadinanza nella nostra popolazione studentesca. Davvero crediamo che le esperienze di partecipazione attiva e rispetto vissute in aula da studentesse e studenti non possano arricchire un mondo del lavoro che non mi pare brilli sempre per rispetto dei diritti di tutte e tutti?