Nel breve elenco degli uomini politici del Vecchio Continente che si sono affrettati fin da subito ad assicurare sostegno incondizionato all’aggressione russa dell’Ucraina non sorprende la presenza di Milorad Dodik, presidente dal 2010 al 2018 della Repubblica Serba di Bosnia e oggi membro della presidenza tripartita del paese più martoriato dalla guerra fratricida di inizio anni ’90.
L’amicizia di Belgrado con Putin
La telefonata con cui il leader nazionalista serbo-bosniaco si è complimentato con Putin per l’operazione ha contribuito a rendere ancora più delicata la posizione di Belgrado (che della Repubblica Serba di Bosnia è di fatto, insieme a Mosca appunto, l’unico interlocutore), stretta da ormai un ventennio tra la tentazione di abbracciare il progetto europeo e le sempiterne sirene dei fratelli ortodossi russi.
La Serbia non ha mai ritirato la propria richiesta di entrare a far parte dell’Ue e resta quindi uno dei cinque candidati ufficiali in attesa, insieme ad Albania, Macedonia, Montenegro e Turchia. I recenti sviluppi del conflitto in Ucraina, però, mettono il presidente serbo Aleksandar Vučić nella poco invidiabile posizione di dover mediare tra le richieste di Bruxelles di aderire alle sanzioni europee a Mosca e un’opinione pubblica sempre più spiccatamente filorussa.
I serbi secessionisti di Bosnia
Non solo: Dodik, e con lui gran parte della nomenklatura di Banja Luka (“capitale” della Repubblica Serba di Bosnia), sta preparando da tempo il terreno per la secessione da Sarajevo e vede nel conflitto russo-ucraino l’occasione d’oro per portare a termine il progetto per cui la sua Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (Snsd) non ha mai nascosto di lavorare fin dalla fine del più sanguinoso conflitto europeo del dopoguerra.
Nel novembre del 1995 gli accordi di Dayton imposero il cessate il fuoco nel paese ma non sciolsero, e anzi se possibile intricarono ulteriormente, i nodi che avevano portato allo scoppio delle ostilità: da allora la Bosnia-Erzegovina è uno stato fantasma, spaccato in due amministrativamente (alla Repubblica Serba fa da contraltare la Federazione croato-musulmano) e in tre politicamente (la stessa presidenza del paese è tripartita, con un rappresentante serbo ortodosso, uno croato cattolico e uno “bosgnacco”, ovvero musulmano).
Un paese che si sta svuotando a vista d’occhio, piagato da un’emigrazione di massa e con il tasso di disoccupazione più alto d’Europa. L’humus perfetto per la propagazione del germe del nazionalismo, lo stesso che nel 1992 fece precipitare il paese nel baratro.
Trent’anni da Sarajevo
A trent’anni esatti dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, che a ben vedere di quella tragedia fu solo la punta dell’iceberg, le tensioni e i timori di un nuovo conflitto sembrano più profondi che mai. All’inizio di marzo, su un muro che costeggia la strada che dalla Sarajevo “federale” conduce alla Sarajevo “serba” è stata affissa nuovamente una targa commemorativa dedicata ai battaglioni guidati dal generale serbo-bosniaco Ratko Mladić, condannato all’ergastolo per genocidio e altri crimini di guerra commessi durante la guerra.
Un piccolo segnale che fa parte però di una strategia politica ben precisa: la classe dirigente di Banja Luka mira a minare la statualità della Bosnia-Erzegovina, mettendo in discussione la legittimità delle istituzioni centrali e arrivando appunto a negare apertamente i crimini di guerra. Dall’altra parte l’atteggiamento dei leader nazionalisti croati e bosgnacchi non è certo più accomodante e ciò contribuisce a una spirale di odio di cui è difficile intravedere la fine.
Un passato che fa tremare l’Europa
Nessuno in Bosnia ha mai davvero voluto fare i conti con il passato recente, avviando una lunga, faticosa ma indispensabile opera di elaborazione del lutto. E molti, troppi, in Occidente – da Roma a Bruxelles a Washington – hanno considerato la questione chiusa, come se bastasse un accordo precario e temporaneo come quello di Dayton a suturare una ferita così profonda.
Ora che il conflitto ucraino ha rinfocolato le velleità separatiste dei serbi di Bosnia, l’Unione Europea trema. La Croazia, membro Ue da ormai nove anni, condivide con la Bosnia-Erzegovina quasi mille kilometri di confine e da Trieste a Velika Kladuša, avamposto nordoccidentale del paese, bastano appena tre ore di auto. Se quello in Ucraina è un conflitto che noi italiani sentiamo vicino, un eventuale, tragico riaccendersi delle tensioni in Bosnia porterebbe la guerra letteralmente alle porte di casa nostra.