Tra le varie notizie passate sottotraccia in questi mesi monopolizzati dalla pandemia c’è un dato che potrebbe risultare significativo per il futuro del nostro paese in ripresa: la popolazione dei campi rom sta diminuendo. “Oltre il campo – il superamento dei campi rom in Italia”, un’analisi comparata dell’Associazione 21 luglio e di Cei Migrantes, analizza come, dopo 30 anni di politiche etniche ghettizzanti, sempre più giovani rom scelgono di emanciparsi in soluzioni abitative convenzionali. Lo scorso 13 settembre Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, ha presentato un convegno alla Camera che ha dibattuto sul superamento della logica dei campi.
Dottor Stasolla, cos’è l’Associazione 21 luglio e di cosa si occupa?
Il 21 luglio di alcuni anni si consumava la triste vicenda della sottrazione di una bambina ai suoi genitori per un’adozione opaca. Abbiamo scelto la data di quell’ingiustizia istituzionale come nome per l’associazione fondata a Roma nel 2010. Da allora siamo rimasti una no profit, attiva in tutta Italia e indipendente. La nostra missione è lavorare nelle periferie emarginate del paese, con un focus specifico sulle comunità rom. La nostra lotta alla discriminazione è cominciata con un’attività di mappatura di una comunità verso cui permane un enorme vuoto conoscitivo, che a sua volta genera stereotipi e pregiudizi. Negli anni abbiamo poi iniziato pratiche di advocacy – supporto attivo e dialogo con le istituzioni – per tutelare i diritti di una comunità discriminata e per dare vita a processi che portino al superamento del dispositivo che più di ogni altro genera emarginazione: il campo.
Cosa significa essere “rom”?
È una domanda a cui di fatto nessuno può rispondere. Storicamente ci si riferisce a popolazioni che dal Mille sono partite dall’India in ondate e con percorsi differenti verso l’Europa. Il paragone più simile è con le popolazioni indoeuropee o doriche che molti secoli prima di Cristo migrarono verso il continente europeo. Oggi in Italia esistono 22 gruppi differenti – non tutti non si riconoscono tra loro o parlano la lingua romanes. È un’identità variabile a seconda dei criteri che si decide di adottare e che risente di profondi pregiudizi. Essere rom non è un status giuridico ed è molto difficile stimarne la reale entità numerica. I criteri del conteggio sono contestabilissimi: l’identificazione si basa sull’autodichiarazione, fortemente influenzata dai contesti in cui si viene intervistati.
Quanti e in che condizioni vivono i rom nel nostro paese?
Il Consiglio d’Europa stima la presenza di 180mila rom in Italia. Noi ci occupiamo della porzione di popolazione che vive nell’emergenza abitativa: sono 17mila e 800. Questo significa che oggi nel nostro paese più di 9 rom su 10 vivono in abitazioni convenzionali, studiano o lavorano, mandano i figli a scuola e pagano le tasse. Sono integrati e pertanto invisibili, a differenza di quel neanche un decimo che vive nei campi.
Perché la popolazione rom nei campi si va riducendo?
Per cominciare, i campi sono dispositivi voluti, realizzati e gestiti dalle istituzioni, in nome di una presunta diversità culturale di popolazioni – erroneamente – considerate nomadi e pertanto incapaci di vivere in abitazioni convenzionali. Qualcosa sta cambiando in quello che dal 2000 era definito “il paese dei campi”: sono tre anni, dal 2018, che non se ne costruiscono di nuovi. I campi sono in diminuzione e addirittura in fase di superamento perché si sta facendo largo nelle amministrazioni locali italiane una nuova mentalità. Le istituzioni con maturità stanno capendo che il campo è un artificioso dispositivo di segregazione. In aggiunta, si aggiunge un altro fenomeno nuovo: la volontà delle nuove generazioni di vivere fuori dal campo. Ci siamo spinti a ipotizzare che una delle cause principali di questa rivoluzione sia lo smartphone. Un banalissimo oggetto di uso quotidiano ha permesso l’apertura di quello che prima di tutto è un ghetto mentale che estranea e risucchia, una finestra chiusa che internet sta permettendo di aprire.
Quali sono le responsabilità della politica?
I progetti e le scelte della politica – che, anche in buona fede, ha contribuito alla creazione dei campi – possono permettere un superamento definitivo. Gli stessi che ne hanno promosso la costruzione, possono permettere la fuoriuscita dai campi. Per questo il lavoro della nostra associazione e dei nostri consulenti da anni si adopera per accompagnare amministratori locali in un percorso di incontri di sensibilizzazione ma anche per fornire indicazioni concrete sui campi presenti nel loro territorio. Bisogna cominciare dalla fine delle politiche speciali. Ancora oggi abbiamo città come Roma e Torino hanno uffici, piani e politiche speciali: vanno ricondotti al mondo ordinario della politica.
Quali sono i progetti d’inclusione che possono portare al superamento dei campi?
Ogni politica di superamento dovrebbe essere multidimensionale, ma è chiaro che il primo problema è quello della dimensione abitativa. Il primo punto è l’uscita dalla dimensione ghetto a quello di una casa convenzionale. In parallelo a questo enorme passo avanti, si possono avviare azioni congiunte legate alla scuola e al lavoro. Senza dimenticare che ogni intervento deve essere personalizzato per le differenti realtà presenti sul territorio. Lo scorso 13 settembre abbiamo presentato alla Camera delle Linee guida nazionali che potrebbero assistere le amministrazioni locali. Servono ascolto e un’analisi precisa delle situazioni in cui si è intenzionati ad operare.
Provando a superare le narrazioni da talk show che riducono l’Italia a un paese razzista o al contrario accogliente, nel concreto quanti sono gli sgomberi e quanti i fondi per l’accoglienza ogni anno?
Gli sgomberi sono ancora troppi. Nel corso della pandemia abbiamo assistito a proclami per cui dal marzo al 31 dicembre scorso non avrebbero dovuto essere fatti sgomberi sui campi, che invece puntualmente sono stati eseguiti. Sono la cartina di tornasole di politiche fallimentari di politiche dell’inclusione sacrificate sull’altare della via più breve. Il trend è in diminuzione ma comunque importanti.
I fondi ci sono, il Pnrr è l’occasione storica per il superamento nel nostro paese di un dispositivo antiquato. I vari fondi per la povertà educativa e per l’emergenza abitativa sono occasioni più uniche che rare per integrare, senza distinzioni straordinarie. Non ci dimentichiamo che il più grande campo nel nostro paese è la baraccopoli di Messina dove da inizio secolo vivono oltre 6mila terremotati del 1906. Realtà che andrebbero messe insieme per accedere a risorse di cui ora disponiamo.
Come sta affrontando la pandemia la comunità rom? Ci sono esclusioni da parte del governo o pregiudizi verso il vaccino?
I rom sono certamente stati l’ultimo pensiero degli amministratori locali durante il Covid. I campi hanno sofferto in primo luogo di privazione alimentare e allentamento dalla scuola e poi della carenza di strumenti di prevenzione, tra cui i vaccini. Per quello che sappiamo, la pandemia non ha particolarmente colpito i rom – a causa della giovane età e dello stile di vita prevalentemente all’aria aperta della popolazione. Notiamo, come in molti dei segmenti più fragili ed emarginati della popolazione, una diffidenza e un sospetto nei confronti del vaccino. Anche se non è possibile avere dati ufficiali, c’è molta difficoltà nel vaccinare la comunità che vive nei campi, come in tutte le periferie del nostro Paese.