Il Trattato del Quirinale comporta dei rischi per il nostro Paese? Se gestito male, rischia di sbilanciare ulteriormente l’asse tra Italia e Francia. Questo perché in ogni intesa bilaterale la grammatica diplomatica insegna che a dover tenere gli occhi bene aperti è soprattutto la controparte più debole. In questo caso, chiaramente, Roma. La Francia è un partner indispensabile ma non bisogna far sì che l’intesa del 26 novembre dia mano libera ai transalpini nelle partite più controverse. E anche sul fronte dei “vantaggi”, è possibile che si arrivi troppo tardi, come una “profezia” del 1993 di Paolo Savona insegna.
Evitare che il Trattato del Quirinale diventi un Trattato dell’Eliseo
In altre parole, bisogna evitare che il Trattato del Quirinale diventi un Trattato dell’Eliseo, come evidenziato con un’azzeccata sintesi da Roberto Sommella, direttore di Milano Finanza da tempo, peraltro, estremamente favorevole a una crescente presenza italiana nei giochi politici europei. La schietta analisi di Sommella va in controtendenza con una narrativa mediatica volta a presentare il Trattato del Quirinale come porta d’accesso verso un futuro in discesa di amorosi sensi tra Parigi e Roma.
La sfida di uno Stato che si pensa in termini napoleonici
Il trattato di cooperazione italo-francese si inserisce nel quadro di quella che chi scrive in più analisi su Inside Over ha definito la “sfida francese” dell’Italia. Ovvero la necessità per Roma di unire elementi di cooperazione e competizione nel quadro dell’indispensabile relazione con Parigi. Partner indispensabile, come del resto il Trattato sottolinea chiaramente, nel Mediterraneo, nel contrasto al rigore in Europa, nella partita tecnologica, nella nuova sfida allo spazio, ma anche potenziale rivale sistemico. Nazione che applica una penetrazione sistemica nell’economia italiana, per mezzo di un sistema di “capitalismo politico” che si muove nel quadro dell’interesse nazionale di Parigi.
Parimenti, lo Stato francese pensa in termini napoleonici, ha una visione che nelle politiche del capo dello Stato trova declinazione quotidiana ma che nel corso degli ultimi decenni ha avuto come stella polare pochi capisaldi: l’autonomia strategica del Paese, la difesa del massimo gradiente di indipendenza operativa in campo militare, economico, geopolitico, la commistione di autorità pubbliche e private nel perseguire la proiezione nazionale. Non certamente un vagheggiato “europeismo” lirico alla cui luce molti hanno letto l’intesa siglata da Macron e Mario Draghi.
I profili di rischio: un Sistema-Stato contro uno Stato di sistemi
La Francia è nazione dotata di uno Stato capace di fare sistema, l’Italia è nazione di sistemi spesso autonomi tra di loro (politica, apparati, grande impresa, finanza) che difficilmente agisce organicamente come Stato. E a quasi un anno dall’insediamento, se anche mai fosse stato possibile, non si sente ancora nessun effetto Draghi in tal senso. Il punto chiave nella discussione sul Trattato del Quirinale sta tutto qui.
La Francia, insomma, ha ben chiaro dove vuole arrivare con le intese bilaterali e in particolar modo con quella che la legherà all’Italia. Parigi non fa mistero che Roma è un junior partner da aggiungere al tavolo delle trattative nel “triangolo europeo” per permetterle di controbilanciare la Germania nell’era post-Merkel. La storia delle fusioni industriali strategiche italo-francesi insegna che, salvo rarissime eccezioni (STMicroelectronics, Naviris) i transalpini raramente concedono condizioni paritetiche nell’accordarsi con gli italiani: Stellantis è nata più facendo capo a Peugeot che a Fca; Borsa Italiana è entrata nel consorzio a guida francese Euronext; perfino Luxottica ha dovuto spostarsi a Parigi dopo l’operazione Essilor.
Le mire di espansione economica della Francia in Italia
L’Italia ha una chiara contezza analoga su cosa vuole ottenere dal rapporto con la Francia? Non sembrerebbe che a livello di sistema-Paese la discussione sulla sfida francese sia stata colta. Solo nell’ultimo anno più volte sono giunti gli ammonimenti del Copasir, secondo cui tutto sembra indicare che la Francia stia riprendendo a ritmo incalzante l’espansione economica sul suolo italiano. Con Parigi le linee rosse politiche ed economiche vanno guardate e definite con attenzione, come ben pochi apparati (rare eccezioni: Eni e Ministero della Difesa) hanno saputo fare ciò, mettendo dunque in campo un metodo di lavoro condiviso con Parigi.
Ma, ad esempio, laddove il Trattato segnala che Italia e Francia si impegnano a rafforzare “il coordinamento nei principali settori della politica economica europea, quali la strategia economica e di bilancio, l’industria, l’energia, i trasporti, la concorrenza e gli aiuti di Stato, il lavoro, il contrasto delle diseguaglianze, la transizione verde e digitale e la programmazione finanziaria dell’Unione Europea” con l’obiettivo di agire insieme “a favore dell’integrazione economica e finanziaria” comunitaria, come può l’Italia offrire garanzie laddove in questi campi spesso lo stesso sistema-Paese è il primo ad essere incerto? La Francia ha ben chiara la sua immagine di integrazione europea, da leggersi come integrazione di un’Europa francocentrica, l’Italia no.
Poteri sbilanciati: il “partito francese” è forte in Italia
E i punti critici non finiscono qui. Draghi dopo la firma del Trattato è stato lesto a sottolineare per primo uno degli obiettivi aggiunti all’ultimo nelle negoziazioni che rappresenta una svolta politica importante per i due paesi: almeno una volta ogni trimestre, un ministro italiano parteciperà a un Consiglio dei ministri francese, e viceversa. Tuttavia, questo impone un’asimmetria importante. In Francia la Presidenza del Consiglio dei ministri è a carico del Presidente della Repubblica, e, in sua assenza, o in caso di sostituzione, del Primo ministro, formalmente capo di un governo che agisce di fatto come funzionario di un inquilino dell’Eliseo dotato di iniziativa autonoma. Il Presidente francese, infatti, ha capacità di influenza sulla vita pubblica del Paese che passano in larga misura per canali esterni al Consiglio dei Ministri. Egli detiene un vero potere di indirizzo politico, specialmente nel campo della politica estera, e in casi particolari può addirittura legiferare per decreto. Un’asimmetria molto diversa rispetto a quanto avviene in Italia, ove tutta l’iniziativa di matrice esecutiva passa unicamente per il Cdm che delibera come organo collegiale.
La presenza di un ministro francese a un Consiglio dei ministri italiano, dunque, è in proporzione da ritenersi assai più pesante rispetto all’analoga presenza di un nostro connazionale in Francia. E del resto non dobbiamo dimenticare che in Italia vivo e forte è il “partito francese” legato da interessi politici, economici, ideologici alla Francia e ai suoi progetti, mentre latitante e assente risulta il partito italiano in Francia. La storia della negoziazione del Trattato del Quirinale è, in tal senso, emblematica: esso prende le mosse dalle proposte di un gruppo di sei saggi nominati dall’allora governo Gentiloni nel 2018.
I “saggi” nominati dall’Italia sono stati Franco Bassanini, più volte ministro e sottosegretario, Marco Piantini, consigliere per gli Affari europei di Gentiloni e Paola Severino, rettore dell’Università Luiss Guido Carli. Quelli della Francia sono stati Sylvie Goulard, ex ministra della Difesa, Gilles Pécout, rettore dell’Académie de Paris, e Pascal Cagni, presidente di Business France, l’agenzia per lo sviluppo internazionale delle imprese francesi. La supervisione dei lavori è stata affidata all’allora sottosegretario alla Affari esteri italiano Sandro Gozi e alla ministra degli Esteri francese Nathalie Loiseau. Bassanini e Severino sono fortemente filofrancesi, come dimostra il fatto che siano stati premiati con la Legion d’Onore rispettivamente nel 2002 e nel 2019, mentre Gozi ha addirittura fatto il salto decisivo oltralpe entrando nel partito di Macron e venendo eletto in Francia eurodeputato nel 2019.
Dossier bollenti: la profezia di Savona
Pensare il Trattato del Quirinale come un punto d’arrivo rischia di essere un errore catastrofico, viste le premesse. Esso è necessariamente un punto di partenza. Se l’Italia saprà giocarsi con astuzia i suoi spazi di autonomia, una relazione aperta e chiara con la Francia può giovare a entrambe le parti. Se, viceversa, ci si consegnerà armi e bagagli a Parigi la relazione si farà sempre più asimmetrica. Portando a definitiva realizzazione la profezia che in piena transizione politica il ministro dell’Industria nel governo Ciampi, nel 1993 fu espressa dall’attuale direttore della Consob Paolo Savona. L’accademico sardo previde che, senza un’ordinata gestione dei rapporti economici con la Francia, da sostanziarsi nella definizione di chiare “linee rosse”, il capitalismo francese avrebbe strabordato in Italia.
L’auspicio di Savona, condiviso in buona parte da Ciampi, non si verificò allora, ma la profezia si è in un certo senso realizzata. E le prime partite per il post-Quirinale metteranno alla prova la strada dell’Italia nel bivio rischioso a cui si trova: Mediobanca e Generali sono al centro di complesse manovre che, per mezzo di Leonardo Del Vecchio, chiamano in causa la Francia; Fincantieri e Naval Group si confrontano duramente per la leadership nella cantieristica navale dentro e fuori il consorzio Naviris; su Tim l’Italia è al bivio tra Francia e Usa; nel campo della Difesa Oto Melara subisce il fascino delle sirene franco-tedesche. E bisognerà valutare in che misura Borsa Italiana potenzierà la proiezione globale della borsa di Parigi portando capitali transalpini in Italia. Tale pressione va gestita e, in un certo senso, controbilanciata. Il Trattato del Quirinale può gestire così come far aumentare d’intensità il peso della sfida francese. E i rischi di egemonizzazione, quando si parla di un’Italia ventre molle dell’intesa, sono sempre dietro l’angolo.