Un’ostrica, un’arancia e l’immancabile banana alludono senza possibilità di fraintendimenti alle parti intime. A Milano è polemica per i cartelloni pubblicitari della terza stagione di “Sex Education”, serie Netflix su un adolescente britannico alla scoperta della propria sessualità insieme coi compagni di scuola. “Se la vediamo in forme diverse è perché non ce n’è una sola. Ognuna è perfetta, anche la tua”. L’invito alla body positivity non è però stato accolto da tutti: non sono mancate le polemiche, in particolare delle associazioni pro-life.
Giuliano Guzzo, firma sul sito dell’associazione onlus Pro Vita & Famiglia (www.provitaefamiglia.it), giornalista de La Verità e sociologo, fornisce la versione dell’associazione per cui ha curato una newsletter in aperta polemica con la campagna pubblicitaria.
Dottor Guzzo, qual è il problema di una pubblicità a sfondo sessuale?
Il problema consiste nel fatto che, presentando certi contenuti in modo esplicito, si rischia di urtare le sensibilità di parecchie persone, tra famiglie e minori, i cui diritti – fino a prova contraria – non valgono meno di quelli di altri. Chi promuove ma anche chi consente l’affissione di taluni messaggi dovrebbe tenerne conto».
Dove sono i rischi di quella che nell’articolo è definita “ipersessualizzazione”?
In questo caso, il punto non sono tanto i “rischi” – dei quali nell’articolo peraltro non si parla – ma è, anzitutto, l’opportunità di una forte erotizzazione delle pubblicità e di una sessualità quindi impropriamente imposta a chi si trova dinanzi a dei manifesti, nella migliore delle ipotesi, di assai dubbio gusto. Per quanto strano possa sembrare, c’è ancora chi considera il pudore un valore. Ed andrebbe rispettato.
C’è un qualche legame con il tema dell’aborto?
Il legame tra aborto ed educazione sessuale c’è soprattutto nel pensiero di chi ritiene che, a scuola, si dovrebbe fare più educazione sessuale, veicolando maggiore conoscenza sui metodi contraccettivi per meglio prevenire le gravidanze tra le giovanissime. Peccato che la realtà dica ben altro. Per esempio, uno studio inglese pubblicato nel 2017 sul Journal of Health Economics ha messo in luce come chi segua corsi di educazione sessuale, rispetto agli altri, tenda poi ad anticipare l’età del primo rapporto, ad averne con maggiore frequenza e ad adottare comportamenti sessualmente maggiormente a rischio. Non mi pare un grande risultato.
Non pensa che sia un bene avvicinare i giovani ai temi della sessualità?
Non penso che sia un bene, penso che sia un bene enorme. Tuttavia, su una cosa dobbiamo essere chiari: il primato educativo sui figli è prerogativa delle famiglie, non della scuola, delle serie tv, delle pubblicità né di qualche influencer. Debbono cioè essere padri e madri a stabilire quando e come affrontare tutti i temi educativi, incluso quello delicato e centrale dell’affettività, con i loro figli. Ricordo, in proposito, quanto solennemente sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che afferma che “i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.
Che cos’è la teoria gender e perché la considerate pericolosa?
La teoria del gender è, in sintesi, l’asserita derivazione culturale dei caratteri maschile e femminile, sovrapposti alla base biologica di ciascuno nella forma di stereotipi comportamentali che nulla avrebbero di spontaneo e che, per questa ragione, sarebbero da contrastare e, possibilmente, eliminare. Negare l’esistenza di tale teoria, come ha scritto il politologo Gaspare Nevola, docente presso la laicissima facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, “è ipocrita o furbesco, sciocco, se non vile”. La pericolosità di questa teoria consiste nel fatto che essa, come appena detto, ignorando indiscutibili risultanze biologiche, psicologiche e sociologiche nega l’esistenza delle differenze sessuali e, addirittura, nega che esistano due sessi, paradigma che boccia in favore dell’affermazione dell’esistenza di infiniti generi.
Qual è la posizione dell’associazione riguardo al referendum sul fine vita che sta raccogliendo le firme in questi giorni?
Quella di una netta contrarietà all’eutanasia legale. Per innumerevoli motivi. Per brevità, mi limito a ricordarne tre. Il primo poggia sul principio di inviolabilità della vita umana – del tutto laico e solidamente ancorato nel nostro ordinamento giuridico -, e sulla convinzione che la plurimillenaria tradizione ippocratica faccia del medico un professionista della salute e un guardiano della vita, non certo, all’occorrenza, un esecutore di morte. In secondo luogo, meritano una riflessione le esperienze di Paesi che ci hanno preceduto in quella che si vuol far passare come «battaglia di libertà»: ovunque l’eutanasia è diventata legale, è presto andata fuori controllo: dal 2002 al 2019, in Olanda, le morti assistite e on demand sono cresciute del 240%, in Belgio dal 2003 al 2019 di oltre il 1.000%, in Canada in appena quattro anni, dal 2016 al 2020, di oltre il 665%. Infine, ricordo che legalizzare la “dolce morte” promuove l’idea dei malati come un peso. Si pensi, per tornare sul citato Canada che, ancora nel 2017, sul Canadian Medical Association Journal si erano stimati in 138 milioni di dollari annui i risparmi per le casse pubbliche del «diritto di morire». Come simili calcoli possano colpevolizzare i malati, che infatti chiedono di morire con frequenza sempre maggiore, è palese.