Perché leggere questo articolo: Il governo di Meloni ha più elementi di centro che di destra, ma l’opposizione non è da meno. Storia di un Paese perennemente moderato.
Il governo di Giorgia Meloni a trazione Fratelli d’Italia è tendenzialmente di “centro”. Risulta “di destra” solo sulle questioni identitarie. Quelle che alla prova dei fatti meno influiscono sulla grande politica. Lo ha capito la Lega, che sul pragmatismo ha costruito la sua graduale infiltrazione a partito capace di guidare l’agenda. Ma in sostanza lo hanno compreso il premier e quella parte del suo partito che non pensano a grilli, saluti romani al bar e sostituzioni etniche di sorta: Ministri come Guido Crosetto, Adolfo Urso e Carlo Nordio, ad esempio, bene starebbero anche in un esecutivo alla Mario Draghi.
Meloni sulla scia di Draghi converge al centro
Meloni è in continuità sulle grandi questioni con Mario Draghi e il suo esecutivo: Pnrr, contenimento del deficit, attenzione al vincolo euroatlantico, sostegno all’Ucraina, riforma fiscale sono stati sviluppati in scia, con deviazioni ma senza grandi sconvolgimenti. E se certamente l’esecutivo dell’ex presidente della Bce non era di sinistra, ma strizzava un occhio alla destra liberale, i conservatori hanno modificato nella sostanza ben poco.
Ideologicamente “di destra” sarà, come prima mossa, giusto un’eventuale politica fiscale pro-natalità. Prima vera misura bandiera d’area che Meloni potrebbe portare in manovra. Ma il fuoco ideologico è lasciato a piccole battaglie legate al flusso della cronaca o a date-bandiera come il 25 Aprile. Vale per la destra di governo, vale per la sinistra di opposizione.
Schlein e il “nuovo” Pd: Sinistra a parole, centro di fatto
Il Partito Democratico targato Elly Schlein, con buona pace dei frondisti che gridano al tradimento, è di Sinistra radicale nella retorica. Non nei fatti.
Meloni dice che ai fondi del Pnrr non bisogna rinunciare, Schlein le fa eco. Il premier parla di inevitabilità del sostegno all’Ucraina, il principale leader di opposizione non cambia la linea. La destra attacca Schlein per questioni come il termovalorizzatore di Roma? Il neo-segretario non fa dietrofront e dà via libera al progetto. Su tasse (meno aliquote, più tagli ai redditi superiori) e lavoro (più flessibilità) Meloni segue Draghi? Schlein a parole attacca il Jobs Act e chiede più tasse a non meglio specificati “super-ricchi”. Ma la sua agenda politica alla prova dei fatti non presenta discontinuità o rotture.
Alla ricerca del centro perduto
In quest’ottica, il centro formato da Carlo Calenda e Matteo Renzi non è mai decollato prima di implodere a un passo dal partito unico. Segnali di ricucitura a parte, però, il fatto è che non c’era prospettiva per tale formazione unitaria di presidiare un non meglio precisato terreno “moderato”.
Questo perché in Italia sono le principali formazioni a evitare ogni discussione su una possibile svolta ideologica nell’agenda. Salvo casi di strane sovrapposizioni. A liberalizzare il mercato del lavoro e a guidare le privatizzazioni, classiche politiche “di destra”, è stato in passato il Partito Democratico. A difendersi contro l’indurimento delle posizioni previdenziali e la restrizione delle maglie sulle pensioni, un’agenda tradizionalmente di Sinistra, sono state in passato Lega e Fratelli d’Italia.
I paragoni, impietosi, con l’estero
Tutto è lasciato alla convenienza del caso e al calcolo elettorale. A cui la ridotta ambizione di andare oltre una logica amministrativa o occupazionale del potere aggiunge un ulteriore freno contro grandi riforme di qualsiasi tipo.
Non vedremo mai un Pd proporre una riforma del lavoro paragonabile a quella di Pedro Sanchez in Spagna, il cui governo è il più radicale tra quelli progressisti dell’Ue. Né immaginiamo una Meloni “thatcheriana” svoltare tanto a destra sull’economia da proporre un’agenda simil-Liz Truss con una riforma shock su tasse e aliquote. O seguire la nuova destra liberale francese in cui Emmanuel Macron si identifica su un terreno simile.
Il problema? Manca un perno del sistema
La convergenza al centro è quella che punta alla logica del massimo risultato con il minimo sforzo. Non si pensano idee alternative di Paese, ma a navigare in acque sempre agitate in cui i decisori politici pensano a non sbagliare prima che a compiere svolte. Vale per l’agenda economica, vale per le nomine (provochiamo: Schlein non avrebbe scelto diversamente sulle partecipate e da ambientalista avrebbe riconfermato anche Claudio Descalzi), vale in particolar modo per la politica estera. Terreno in cui si analizzano al massimo i limitati spazi di manovra del sistema-Paese di fronte ai grandi scenari globali.
Chi pensava a una politica estera “ideologica” di Meloni, al netto di alcune prese di posizione nel campo conservatore, non conosce i limiti a cui è sottoposto un Paese come l’Italia e gli scenari in cui è incardinato. Anzi, su temi come l’economia gli alleati di Meloni in Europa sono più leader tradizionalmente pensati lontani come Sanchez e Macron, nemici dell’austerità, che partner ideologici come Viktor Orban o Mateusz Morawiecki.
Quel che manca in Italia non è un centro, ma un perno del sistema. Lo è stata per decenni la Democrazia Cristiana. Hanno provato ad esserlo Silvio Berlusconi prima e le varie cordate di centrosinistra poi. Lo è stato il connubio tra il Pd e lo Stato profondo fatto di burocrazie strategiche, servizi e boiardi di Stato vegliato dal Quirinale negli anni dopo la Grande Recessione. Oggi tutti sono al centro, di fatto o a parole, ma nessuno è più perno. Anche l’esperienza di Draghi si è esaurita prima di rinnovare le strutture e i nomi in modo tale da ridefinire i poteri. Oggi, come un Gattopardo, tra un governo e l’altro a parole cambia molto. Nei fatti ben poco. Restano i grilli, i diritti civili, le questioni-bandiera. Capaci di assolvere i partiti dall’assenza di svolte reali. E di giustificare differenze che sulle grandi questioni è difficile cogliere.