Cattedre saltate, personaggi messi alla gogna, libri e opere rivisitati. I diktat del politicamente corretto. L’esigenza di difendere le minoranze, di genere o etniche, sta dilagando in un fenomeno che, da più parti, viene definito “cancel culture”. Su True-News.it avviamo un confronto tra opinionisti e intellettuali per capire se davvero, in questo periodo storico, non si possa dire più niente. Di seguito l’intervista a Giulio Meotti che si occupa di cancel culture per le pagine culturali de Il Foglio, a cui fa seguito la replica di Lorenzo Gasparrini, studioso di filosofia e divulgatore di studi di genere. Si può parlare di cancel culture anche in Italia? In Italia, i fenomeni diciamo culturali, non avendo una grossa identità culturale, vengono recepiti inevitabilmente un po’ più lentamente. Un po’ perché siamo la provincia dell’impero e un po’ perché c’è comunque una forma di resistenza legata al fatto che non abbiamo avuto colonialismo e schiavitù, se non poca cosa rispetto all’Inghilterra, dove il fenomeno della decolonizzazione è fortissimo. Meno intensamente, ma, in realtà, poi lo stiamo vedendo che sta arrivando. Nell’ultima guerra abbiamo visto annullato, e poi ripristinato, il corso su Dostoevskij. La Biennale o il Festival di Fotografia hanno cancellato i contenuti non perchè erano legati alla guerra, ma solo perchè russi. Comunque è tutto da vedere, perché un paese come la Francia ad esempio, che è comunque un paese di una forte cultura rispetto alla nostra, sta subendo massicciamente la cancel culture. Ad eseimpio, “Il negro di narciso” di Joseph Conrad è diventato “I figli del male”. Cosa accade nelle università italiane? Nelle università italiane vige una sorta di bieco conformismo. C’è una cancel-culture già all’origine. Non c’è un pluralismo di opinioni e di visioni che possono scontrarsi come accade negli Stati Uniti. Dove, nelle principali università, ci sono numerosi conservatori: penso a Jordan Peterson o Allan Bloom. Da noi, invece, chi possiamo nominare di artisti di destra o comunque non allineati a questo tipo di sinistra? In Italia abbiamo la cancel culture del conformismo: in America c’è un dibattito da cui esce uno scontro. Da noi – citando il direttore di “Tempo Presente” – “c’è una tranquilla abitudine a ignorare le cose. Basta non parlare più di qualcosa. E in questi mesi di guerra? Cosa pensi della partecipazione di Lavrov al programma “Zona Bianca” su Rete 4? Io sono un vero liberale, penso che dobbiamo dare la parola a tutti, figuriamoci se ci autocensura. Per quanto riguarda il ministro degli Esteri russo, non mi metto a dare lezioni a Brindisi sul fatto se abbia fatto o meno contraddittorio. Penso che comunque si è mosso bene. Certo, non è Christiane Amanpour della Cnn che quando intervista qualcuno incalza e mette in difficoltà l’interlocutore. Però non si capisce bene sulla base di quale motivo, non dovremmo dare la parola al capo della diplomazia del Paese più grande del mondo, che è il Paese che ha scatenato questa guerra. Su Orsini? Non ho una grande opinione, nel senso che, fatto salva la libertà di prendere la parola, penso che quest’accusa di putinismo mi ricorda il populismo di qualche anno fa. C’è un tentativo immediato di chiudere la bocca di chiudere la bocca su chi abbia un’opinione discordante sull’origine della guerra. Certo, Orsini ha un grande ego: per questo ho un’opinione negativa. Ma, come crede Elon Musk, la parola va data a tutti. Va tolta solo se porta un immediato pericolo per la pace sociale. Un altro ambito di scontro, dove l’incontro tra cancel culture e politicamente corretto, è intenso si ritrova nel dibattito sul Ddl Zan? Il compianto Roger Scruton, un grande filosofo inglese, diceva che l’accusa di transfobia è come quella di anticomunismo negli anni 50 che fecero a Orwell. Sul caso dei diritti civili, l’unico argomento che si ha per chiudere la bocca al contraddittorio è espellerlo moralmente dalla società civile. L’oppositore diventa nemico dell’umanità, additato come fascista, omofobo o transofobo. Un tentativo patetico ma che funziona, un’arma seducente capace di generare esclusione. Addirittura codificarla in una legge, come quella di Zan, ci porta a un livello dispotico. Vicenda degli alpini. Anche in questo caso si è assistito a un processo di polarizzazione. Da un lato le accuse di donne e movimenti femministi contro l’intero movimento degli Alpini, dall’altra chi ha invitato a non fare di tutta l’erba sul fascio. L’episodio degli alpini a Rimini mi ha ricordato le violenze di massa accadute a Colonia durante il Capodanno del 2017. I colpevoli erano perlopiù immigrati ma, in quel caso, non si poteva stigmatizzare il multiculturalismo. Non capisco questo doppio standard. Mi ricordo che la più famosa femminista tedesca, fece un articolo curioso in cui parlò addirittura di gang bang culturale. Usò parole feroci, contro quello che era avvenuto accusando le proprie colleghe. Basta avere un pochino di memoria per capire che ci sono realtà maestre nel generare queste diatribe.