È stato il caso di cronaca nera italiana degli ultimi 15 anni, ora è diventato un film piuttosto mediocre. Yara– una produzione del gruppo Mediaset, distribuita da Netflix a partire dal 5 novembre e destinata con ogni probabilità ad essere riproposta in televisione a breve – sta facendo discutere, incontrando soprattutto giudizi negativi.
L’impressione è che l’enorme risonanza mediatica non abbia giovato alla pellicola di Marco Tullio Giordana. È difficile dimenticare la tragica vicenda di Yara Gambirasio – la 13enne di Brembate in provincia di Bergamo, scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata assassinata dopo tre mesi – e della pornografia del dolore che per anni ha morbosamente accompagnato le indagini che hanno portato alla condanna definitiva di Massimo Bossetti nel 2018.
Il film su Yara? Racconta una ferita ancora aperta
Il regista de I cento passi, La meglio gioventù e Romanzo di una strage sembra inciampare nelle difficoltà di una vicenda che ha sconvolto l’Italia per otto lunghi anni – e il cui esito continua ad essere contestato da vari esponenti del “garantismo” e “innocentismo” italiano. Rispetto ai film precedenti del regista, la vicenda è una ferita troppo recente per non sanguinare. Mancano i connotati storici, politici o sociali delle vicende di Peppino Impastato, Piazza Fontana o di Pasolini; rimane un mero episodio di cronaca nera che rischia di incappare nelle accuse di voyerismo.
I genitori della vittima? Non interpellati da Netflix per il film sulla figlia Yara
Che bisogno c’era di fare un film, senza nessuna particolare originalità e con una recitazione tutta da “gustare” (eufemismo) su un fatto che è stato trattato in tutte le salse da uno stuolo di trasmissioni televisive? Per giunta senza interpellare i genitori della vittima. In un’intervista a Fanpage, Andrea Pezzotta, l’avvocato della famiglia Gambirasio ha dichiarato che: “Non c’è stato nessun accordo. La famiglia lo ha scoperto a cose fatte, solo dopo hanno fatto una telefonata a me, ma a film già confezionato. I Gambirasio non hanno rilasciato alcuna dichiarazione, non lo fanno in altre circostanze figuriamoci in una situazione del genere”.
Giordana, in un’intervista a Repubblica, si è speso in difesa del suo film: “Detestando per indole ogni illecita morbosa curiosità, ho controllato i verbali d’interrogatorio, gli atti processuali, le sentenze, i libri, i resoconti dei giornali. Ma li studio come fossero collocati nella preistoria, ogni rabbia o passione spenta”. Yara per il regista “dovrebbe soprattutto evocare un flusso di emozioni guidato dalle immagini, dalla loro composizione, dal loro ritmo, dalla musica o dai silenzi (anch’essi musica) e, soprattutto, dalla capacità degli attori di ‘trasmettere’, come stazioni radio, come onde ipersensibili al confine della telepatia”. Un’apologia che cozza con una trasposizione cinematografica che scava nel torbido, arrivando ad affondare nell’intimità familiare della vittima.
Un film che punta sull’esasperazione del contenuto
La fiction è incentrata sulle indagini condotte dalla Pm Letizia Ruggeri, in una sequenza didascalica di indizi che non aggiunge nulla a una vicenda sviscerata dall’esasperante trattazione televisiva di questi anni. Il vero protagonista del film è il Dna di Ignoto 1. Le interpretazioni scolastiche – di un cast che sembra preso in prestito da una stagione di Squadra Antimafia e fa tornare alla mente la famosa recitazione all’italiana come appellata in Boris – appesantiscono personaggi talmente grigi e imprecisi da sembrare caricaturali.
La moglie che sembra voler far confessare un Bossetti in versione Fabrizio Corona e il topos immancabile della donna inquirente, ovviamente eroica, alle prese con la mascolinità dell’ambiente – che in realtà il Csm dice essere composto al 54% da giudici donna in contrasto con quasi qualunque altro ambiente lavorativo in Italia – sono macigni oltremodo pesanti per una vicenda così delicata.
Nessun accenno alle polemiche sulle indagini – dallo spostamento del corpo di Yara, i ritardi di esame del Dna e la distruzione di alcune tracce. Nessun riferimento ai 711 testimoni venuti a sostegno dell’imputato, un vago riferimento alla manipolazione della ripresa video del furgoncino bianco del Bossetti, diventata un loop di passaggi montati apposta dal Ris “per esigenze mediatiche”. La provincia bergamasca, coi suoi umili abitanti che lavorano, ubbidiscono alle richieste delle autorità, sussurrano e imprecano sottovoce è un affresco lobotomizzato della scena del crimine. Il film non prova nemmeno a rispondere a interrogativi o ad allargare il quadro di una trattazione giudiziaria che sembra finalistica. Si sa già come va a finire e ci si arriva a tappe forzate.
Da Amanda a Yara: queste produzioni erano così necessarie?
Amanda prima e adesso Yara: l’allargamento del palinsesto di Netflix sembra voler far concorrenza al successo di “Un giorno in pretura” di Roberta Petrelluzzi o “Storie maledette” di Franca Leosini. Una trasposizione anonima che non aggiunge nulla a un pubblico che sa già tutto, ma che vuole comunque sapere di più su un fatto su cui forse sarebbe stato meglio far calare un rispettoso silenzio. Di nuovo, che bisogno c’era?