Perchè questo articolo potrebbe interessarti? Giorgia Meloni è il presidente del consiglio dei ministri. Per la prima volta in Italia è una donna a ricoprire questa carica. Ma allo stesso tempo Giorgia Meloni è la leader del partito che ha eletto meno donne in parlamento (tra i partiti più grandi). L’inversione di un trend che negli anni aveva visto sempre più donne nelle aule parlamentari, ma che cambia all’improvviso tendenza.
Se ne è fatto un grande parlare del primo premier donna in Italia. Giorgia Meloni si è conquistata un primato unico: prima donna italiana presidente del Consiglio. Ma da subito ha messo le cose in chiaro, si farà chiamare con l’articolo maschile. A chiarirlo una circolare
della presidenza del Consiglio ai ministeri, dove si legge: “Per opportuna informazione si comunica che l’appellativo da utilizzare per il presidente del consiglio dei ministri è: il signor presidente del consiglio dei ministri, l’on. Giorgia Meloni”. A questa nota ne è seguita un’altra in cui Giorgia Meloni chiede di farsi chiamare “il presidente del Consiglio” nelle comunicazioni istituzionali.
Giorgia Meloni rappresenta un cambiamento, ma questo non porta automaticamente alla rottura del soffitto di cristallo e quindi alla caduta di tutti quegli ostacoli che impediscono alle donne di ricoprire ruoli ai vertici. Lo si è visto nella composizione del nuovo parlamento. Sebbene la premier sia donna, gli uomini occupano più posti.
Le donne diminuiscono in parlamento
Con la nuova legislatura, la XIX, si assiste a un’inversione di tendenza. Come riportato da Openpolis: “le donne sono in tutto 200 sul totale di 600 seggi elettivi del parlamento”, di questi sei seggi sono riservati a senatrici e senatori a vita. Se si prendono in considerazione le due aule distinte ci sono da un lato 129 donne alla camera su un totale di 400 posti e dall’altro 71 donne al senato su 206. Una chiara sottorappresentazione delle donne. Nella data visualizzazione riportata da Openpolis viene rappresentata la percentuale di donne elette al parlamento suddivise tra camera e senato nelle legislature che vanno dalla I (1948) alla XIX (2022). Dalla XIII legislatura (tra il 1996 e il 2001) fino alla XVIII (dal 2018 al 2022) si è registrato unandamento in crescita graduale: alla camera si è passati dall’11,13% al 35,71%. Al senato la crescita costante si nota dalla XIV legislatura (tra il 2001 e il 2006) per segnare il suo picco nella XVIII legislatura (34,69%) e attestarsi quasi uguale, con un lieve calo, nella nuova composizione del senato (34,47&). Se a palazzo Madama il cambio di legislatura ha influito
poco, a Montecitorio invece si registra un 32,25% di donne elette, un dato più basso di tre punti percentuali e mezzo rispetto alla XVIII legislatura.
Azione e Italia Viva sono il partito che ha eletto il maggior numero di donne in parlamento, pari al 46,66% sul totale dei propri eletti. Subito dopo, con il 45%, c’è il Movimento 5 Stelle. Gli altri partiti di distaccano: le donne nella lista Noi moderati sono il 33,33%, in Alleanza Verdi-Sinistra il 31,25%, nel Partito democratico il 28,57%, la Lega assegna il 31,57% e Fratelli d’Italia il 27,02%. Infine, ci sono Forza Italia con il 31,66% e Più Europa, che ha eletto due deputati, quindi zero donne.
Il Rosatellum non ha aiutato la parità di genere
Durante le elezioni politiche dello scorso settembre, le candidate erano 2.104 su un totale di 4.746 persone che si sono presentate. Questo bilanciamento è frutto della legge elettorale, la legge 165 del 2017, il cosiddetto Rosatellum. Infatti, il Rosatellum, prevede alcune misure per incoraggiare l’elezione di candidate. L’articolo 18 bis della legge elettorale comunica che: “Nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere. Nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione di liste nei collegi uninominali a livello nazionale, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60%, con arrotondamento all’unità più prossima. Nel complesso delle liste nei collegi plurinominali presentate da ciascuna lista a
livello nazionale, nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60%, con arrotondamento all’unità più prossima”. Questo significa che su 10 candidati soltanto 6 possono essere uomini. Ma i partiti hanno trovato delle vie di fuga per non attenersi a questi meccanismi: la possibilità di essere candidati in più collegi è il punto debole. Si possono infatti presentare fino a cinque candidature al plurinominale più una all’uninominale. In questo modo, le candidature maschili sono state favorite, perché la persona in cima alla lista può essere eletta in un solo collegio, ma se il suo partito dovesse vincere in più collegi, i
seggi saranno assegnati al nome seguente nella lista bloccata del plurinominale, cioè un nome maschile, rispettando così il criterio dell’alternanza dei generi. Secondo le analisi di La Voce, i partiti che hanno usato di più questo stratagemma sono stati Fratelli d’Italia e la
Lega.
Giorgia Meloni “vuole più donne”
La maggior parte dei partiti non ha dimostrato particolare attenzione al tema della parità di genere. Il risultato è che per la prima volta da circa 20 anni, la percentuale di donne presenti in parlamento anziché aumentare è diminuita. Nel nuovo parlamento le donne sono il 32,5% tra coloro che compongono la camera e il 34,5% del senato, in calo rispetto alla scorsa legislatura. Ma il presidente del Consiglio deve essersi resa conto di questo divario tanto che gira la notizia che Giorgia Meloni “vuole più donne”. La lista finale della squadra di sottogoverno
non è ancora chiusa.