Soprattutto nel dibattito online lo scontro si accende quando si parla di cancel culture e politicamente corretto. Alcuni temi sono sempre più sensibili, ma davvero non si può più dire niente? Su True-News.it un confronto tra opinionisti e intellettuali per capire se davvero, in questo periodo storico, non si possa dire più niente. Dopo Giulio Meotti, Lorenzo Gasparrini e Andrea De Benedetti, ci siamo confrontati con Jennifer Guerra, giornalista e scrittrice che si occupa di tematiche femministe.
All’interno del dibattito pubblico (anche online) sta aumentando la polarizzazione delle idee? Oppure c’è una loro omologazione su posizioni specifiche?
Secondo me bisogna distinguere due piani nell’informazione del nostro Paese, che lo differenziano anche da altri contesti. C’è una forte polarizzazione nel dibattito online, che si riflette molto bene anche nel tipo di commenti che vengono fatti dai lettori sulle pagine di notizie o delle testate. Invece per quanto riguarda i cosiddetti media generalisti o la carta stampata, credo che ci sia ancora una forte presa dell’identità di chi detiene questi mezzi. Mi spiego con un esempio: ogni estate ci ritroviamo con decine di articoli che si lamentano del fatto che non si trovano lavoratori stagionali. Quella è espressione del pensiero delle classi dominanti. C’è una grande uniformità “demografica” e ideologica all’interno delle redazioni e tra chi prende le decisioni di tipo editoriale, che tende quindi anche a uniformare l’informazione. La polarizzazione del pubblico potrebbe essere anche una risposta al non sentirsi rappresentati.
Qual è lo stato della libertà di espressione in Italia? È vero che “non si può più dire niente”?
Anche a questa domanda è difficile rispondere per assoluti. In Italia chi già detiene quello che possiamo considerare un “diritto di parola” può dire tutto, e spesso senza conseguenze. Finché puoi lamentarti che non si può più dire niente dalle pagine del più prestigioso quotidiano del Paese, fidati che si può dire tutto. E non dimentichiamo che ci sono testate che letteralmente campano grazie all’hate speech, cosa che non sarebbe tollerabile in nessun altro Paese. Invece le classi subalterne o le persone marginalizzate non hanno grande possibilità di esprimersi, e quando lo fanno spesso le loro parole vengono o modificate per essere più digeribili o strumentalizzate. Quindi anche in questo caso è necessario fare un discorso su potere e libertà di espressione.
Soprattutto quando si parla di diritti, si fatica a far arrivare la riflessione fuori dalla bolla. Quali meccanismi avvengono dentro le bolle che si occupano di comunità marginalizzate?
C’è un libro molto interessante di una pensatrice femminista che si intitola The Tiranny of Structurelessness. In questo libro l’autrice sostiene che anche nelle società ci si ritrova con gerarchie informali, che finiscono con l’essere più dannose di quelle regolari proprio perché riescono a farsi passare come casuali o addirittura naturali. Anche all’interno, ad esempio, del dibattito femminista esistono queste gerarchie, che spesso non sono frutto di una volontà particolare di singoli individui, ma tendono a seguire le traiettorie del mondo culturale e i meccanismi di potere che sono già in essere al suo interno. Personalmente penso che la responsabilità di uscire dalla bolla dipenda solo in minima parte da chi ne fa parte, perché se è vero che esistono delle gerarchie di potere all’interno di certi ambienti, queste contano poco quando ci si ritrova “fuori dalla bolla”. Ci tengo anche a dire che per me il femminismo non è una bolla, è una pratica che si compie quotidianamente nel mondo che abitiamo, ciascunə come può.
Quando finalmente i temi diventano mainstream, spesso decide di occuparsene chi non li conosce da vicino, chi non fa parte delle comunità marginalizzate coinvolte. Perché è così importante che sia chi vive determinati fenomeni in prima persona a parlarne?
Come dicevo prima, facendo l’esempio dei lavoratori stagionali, certe vicende umane sono particolarmente “incarnate”. Né l’imprenditore né il giornalista che lo intervista potranno sapere cosa vuol dire lavorare su turni massacranti ed essere pagati una miseria. Questo vale ancora di più nel caso di identità come il genere, l’orientamento sessuale, l’etnia ecc. Ma non è solo una questione di rappresentazione, è anche una questione di giustizia. Le categorie marginalizzate occupano già pochissimo spazio nel sistema mediatico e culturale, il fatto che ci sia pure qualcuno che pretenda di parlare per loro sembra ancora più una presa in giro.