Perché questo articolo potrebbe interessarti? Si avvicinano le regionali in una fase in cui si è tornati a discutere di autonomia degli enti locali e dei territori. Un dibattito antico quanto la nostra storia unitaria e mai del tutto affrontato con la necessaria chiarezza. Il risultato è quello di avere oggi un ordinamento tendente a un’autonomia che però, sotto il profilo politico, rimane solo sulla carta.
Il voto regionale del prossimo febbraio è destinato ad assumere un alto valore politico. Tuttavia quando si vota per un presidente della regione e per un consiglio regionale, in teoria si dovrebbe incidere sulle sorti del proprio territorio di riferimento. Il fatto che il voto in Lazio e Lombardia sia più atteso a Montecitorio che altrove, è indicativo dell’attuale livello di autonomia degli enti locali. Le istanze nazionali prevalgono infatti su quelle regionali. E questo non è da sottovalutare in un momento in cui si parla di nuove riforme in senso autonomistico.
La travagliata storia delle regioni e dell’autonomia
Anticamera dello sconquasso dei conti pubblici, come preconizzato dal leader repubblicano Ugo La Malfa ormai tanti anni fa, oppure reale opportunità di autonomia per il territorio? L’esistenza stessa delle regioni non ha mai catturato unanimi simpatie. Lo si intuisce dal fatto che dalla loro nascita, proclamata con la costituzione repubblicana del 1948, al loro effettivo insediamento sono dovuti passare 22 anni. Del resto, al momento della formazione del Regno d’Italia le regioni non esistevano. C’erano le province, dove i prefetti erano chiamati a verificare la tenuta delle norme emanate dal potere centrale, i circondari, i mandamenti e i comuni.
Si è iniziato già allora a chiedere deleghe e autonomie, sono ben noti i dibattiti tra destra e sinistra storica in tal senso, ma alla fine per preservare uno Stato da poco unito si è scelta una linea accentratrice. Una prima suddivisione in regioni si è avuta solo per meri fini statistici. Pietro Maestri, fondatore dell’annuario statistico italiano, nel 1863 ha infatti individuato almeno venti “compartimenti statistici”. Compartimenti i cui confini erano molto simili a quelli delle attuali regioni, chiamate così solamente nei primi del ‘900. Poi l’inserimento nella nuova costituzione e la lunga travagliata storia verso le prime elezioni per i consigli regionali, tenute nel 1970. Da allora, è stato un crescendo di richieste di maggiore indipendenza da Roma, di maggiori poteri, di riforme ferme al palo o di altre divenute realtà senza però una chiara direzione pratica.
Tante riforme, poca chiarezza
Amava ripetere Indro Montanelli che l’Italia è il Paese in grado di sfornare il più alto numero di riforme. Sottintendendo però il fatto che non necessariamente questo porta a reali cambiamenti. Il dibattito su regioni e autonomia è in tal senso emblematico. La seconda repubblica in particolare ha sfornato molte riforme. L’input è stato dato dall’emersione di movimenti e partiti, prima al nord e poi in parte anche al sud, che hanno iniziato a chiedere ampia autonomia per gli enti locali. Emblematico, nei primi anni ’90, il caso della Lega.
Il legislatore si è mosso in base ai costanti e frequenti cambi di colore della maggioranza. Provando, con svariate riforme, ad accontentare un po’ tutti. Da un lato garantendo maggiore autonomia, dall’altro evitando di smembrare del tutto l’impostazione centralista dello Stato. Nel 1995 per la prima volta i cittadini hanno potuto eleggere direttamente i presidenti della regione, avviando una forma di “presidenzialismo locale” considerato come anticamera di una maggiore devoluzione di poteri. Nel 2000 poi si è arrivati alla riforma del Titolo V della costituzione, con il quale si è capovolta o la prospettiva dei rapporti tra Stato ed enti locali. Sono adesso proprio gli enti i primi riferimenti per le istanze dei cittadini, mentre allo Stato sono state demandate specifiche materie. Le regioni quindi hanno preso in mano tutti quei poteri e tutte quelle materie non specificatamente designate dalla legge costituzionale al potere centrale.
Tuttavia questo non ha prodotto un chiaro cambiamento degli assetti. Lo si è visto con drammatica chiarezza soprattutto durante la crisi generata dal coronavirus. Nel giro di poche settimane, nel momento in cui occorreva prendere delle decisioni in modo chiaro per fronteggiare l’emergenza, sono sorti numerosi conflitti di competenza tra Stato e regione e aspri scontri tra governo ed enti locali. Oggi l’impianto italiano appare “incompleto”. Non si è arrivati né a un federalismo in versione tedesca, né a un sistema ispirato alle comunità autonome della Spagna post franchista. Ecco forse perché il dibattito è ancora ben aperto: quello dell’autonomia in Italia appare oggi un cantiere incompiuto e su cui non si ha ancora chiaro il progetto da applicare.
Enti locali ma con presidenti scelti nella capitale
Il vero nodo della questione però sembra più marcatamente politico che costituzionale. Al di là del valore delle riforme fatte in questi anni, la partita sull’autonomia si gioca sul livello dell’organizzazione dei partiti nella nostra penisola. Partiti che hanno ancora un’impostazione fortemente verticistica e centralizzata. Nella prima repubblica ogni lista di candidati veniva scritta e approvata all’interno delle sedi delle segreterie nazionali dei principali partiti. Nella seconda la scelta dei nomi da candidare alla presidenza o al consiglio regionale, è frutto di contrattazioni interne alle coalizioni svolte in ambito nazionale. Sono quindi ancora oggi i leader dei partiti a Roma ad avere sia la prima che l’ultima parola sulle dinamiche politiche locali.
Ed è questo forse il vero fattore limitante per l’autonomia regionale. La regione è solo sulla carta organizzata sul modello di un mini presidenzialismo. In realtà il presidente della giunta è agganciato sia alla fiducia del consiglio regionale (a sua volta legato agli accordi di coalizione nazionali) che a quella delle segreterie politiche. I margini di manovra sono molto limitati e questo vale anche per molte delle regioni a statuto speciale: “Inutile dire che siamo autonomi – commenta su TrueNews un funzionario della Regione Siciliana – se poi i partiti che siedono a Sala d’Ercole (l’aula del parlamento regionale siciliano, ndr) rispondono a Roma”.
Si può quindi affermare che il dibattito sull’autonomia non può non prevedere, al fianco delle possibili riforme legislative e costituzionali, anche una diversa impostazione dei partiti e del loro rapporto con i vari territori. Ma questo forse si potrà fare solo quando si avrà una chiara idea generale sul modello di Italia che si vorrà costruire in futuro.