Molti quotidiani, all’indomani della riconferma all’Eliseo del più giovane capo di stato francese dai tempi di Napoleone, hanno titolato: “Con Macron vince l’Europa”. Uno sguardo allo sconquasso politico ed economico che la guerra in Ucraina ha generato sul continente può far pensare a un titolo differente: “Macron ha conquistato l’Europa”.
Highlander europeo
Mai come oggi l’Europa sembra senza leader o paesi in grado di trainare un’Unione esposta alle iniziative di Russia e Cina e alla dipendenza dagli Stati Uniti. Proprio in questi giorni, il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin a Ramstein, in Germania, ha partecipato nelle più grande base militare sul suolo europeo all’Ukraine Security Consultative Group con i ministri della Difesa e i capi di stato maggiore dei Paesi Nato.
Se i 27 non si sono ancora dotati di un esercito, o quanto meno di una politica o di strategie d’intervento estere comuni, a chi deve telefonare Washington per esporre la nuova “dottrina Austin” di contenimento delle guerre di Putin? La politica estera dell’Unione passa ancora dalla decisioni dei singoli capi di stato. Che, ad eccezione di Macron, non sembrano vivere un ottimo momento.
In Italia, la clessidra del governo di Mario Draghi si esaurirà nel 2023 e il diretto interessato ha più volte ribadito di non voler proseguire un percorso di politica politicante, per lo meno nel nostro paese: dopo la Bce nel suo futuro potrebbe esserci la Banca mondiale. La Gran Bretagna post-Brexit è ormai fuori dai giochi, mentre il suo premier Boris Johnson è ancora nel pieno della bufera per il festino organizzato durante il lockdown. E anche la Germania non se la passa bene per nulla.
Germania, la locomotiva rallentata da Mosca
Dopo sedici anni a Berlino si è conclusa l’era Merkel, su cui in men che non si dica è calato un imbarazzato silenzio. Non tanto per il cambio di colore politico del nuovo esecutivo socialdemocratico tedesco, quanto per l’ingombrante eredità di rapporti con la Russia che la cancelliera ha lasciato in dote. Nei primi mesi di mandato, Olaf Scholz è sembrato accusare il peso della relazione con il partner-rivale Putin. Dietro alla frenata tedesca sulle sanzioni c’è il terrore di una crisi economica.
Il Pil tedesco è quello che più di tutti in Europa rischia di essere colpito dalle conseguenze dalla guerra. Il Fondo monetario internazionale ha stimato al ribasso la crescita tedesca: dal 4,4% previsto a inizio anno all’attuale stima del 2,7; una contrazione dell’aumento di 1,7% contro l’1,1% dell’area euro che crescerà del 2,8 e non del 3,9 per cento. Mentre uno studio della Bundesbank, valuta che uno stop improvviso delle forniture di gas russo costerebbe alla Germania 180 miliardi di euro solo nel 2022, il 5% del Pil. Per fare un confronto, la contrazione del Pil causata dalla pandemia nel 2020 è stata di 145.
Berlino prima dell’invasione dell’Ucraina dipendeva dalla Russia per il petrolio al 35%, al 50% per il carbone e al 55% per il gas (ora sceso a ridosso del 40 per cento). Dietro questi dati si celano i continui dietrofront di Scholz sul riarmo tedesco, i ripensamenti sulla fornitura di armi all’Ucraina e le ambiguità sulle sanzioni alla Russia.
Chi ha le mani libere dal gas russo?
Nel 2021 l’Ue ha importato il 40% del gas dalla Russia. Ovvero oltre 380 milioni di metri cubi al giorno tramite gasdotto, per un totale di circa 140 miliardi di metri cubi all’anno, secondo l’Iea. Altri 15 miliardi di metri cubi sono stati consegnati sotto forma di gas naturale liquefatto.
Nella classifica della dipendenza dei grandi paesi, alla Germania – che nel 2020 importava dalla Russia circa 42,6 miliardi di metri cubi – segue l’Italia con 29,2 miliardi di metri cubi all’anno (il 46% del totale). Nell’elenco dei principali clienti di Mosca non rientra invece la Francia, che dipende dalla Russia per meno di un quarto del suo import di gas (24%), propendendo più per il norvegese (35%).
Il Regno Unito si trova in una posizione diversa, attingendo metà della sua fornitura di gas da fonti nazionali e importando principalmente dalla Norvegia e anche dal Qatar. Anche la Spagna non è nell’elenco dei principali clienti della Russia, i maggiori partner commerciali del paese sono Algeria e Stati Uniti.
Tra i piccoli paesi europei il quadro è variegato. Ci sono stati che importano solo gas da Mosca: Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Moldavia. Stati confinanti estremamente dipendenti, come Finlandia e Lettonia che comprano più del 90% del proprio gas dalla Russia e la Serbia oltre l’89%. La dipendenza dell’Olanda è piuttosto bassa: solo l’11% del suo gas viene dalla Russia. Lo stesso vale per la Romania (10%). Irlanda e Ucraina, addirittura non comprano nemmeno un metro cubo di gas da Mosca, col governo di Kiev acquista gas naturale dalla Ue dal 2015 dopo il conflitto armato con la Russia per la Crimea.
Macron 2.0
Se Marine Le Pen parla di una “non sconfitta” di bersaniana memoria, Macron può cantare vittoria. La rielezione è frutto di uno scarto sulla sfidante di oltre 5 milioni di voti – due milioni in meno di quanto Macron prese nel 2017, ma con un’affluenza calata di oltre 3 punti. Forte dell’importante riconferma elettorale e della debole dipendenza da Mosca, Macron è libero di dettare l’agenda di un’Europa alle prese con le turbolenze interne dei suoi leader e con le pressioni esterne di un mondo sempre più in fermento.
Il “re bambino” – come avevano ribattezzato il presidente al suo insediamento nel 2017 – è diventato grande, anche per il declino dei suoi partner europei. Al punto da dover guardare con più attenzione a casa propria. Il Macron 2.0 ha un’importante scadenza nel voto amministrativo di giugno, in cui deve evitare il pericolo della “coabitazione“, scenario che nel lessico politico francese sancisce una maggioranza di schieramento opposto a quello del Presidente della Repubblica. In Europa, invece, non sembra profilarsi all’orizzonte alcun margine per una co-reggenza con il “monarca-presidente” Macron.
La Francia in marcia verso il mondo
La priorità interna è una prerogativa della politica francese, sin dalla fondazione della V Repubblica nel 1958 con Charles De Gaulle. Da sempre la politica estera francese ha come riferimento l’interesse nazionale, in bilico tra grandeur di ex potenza imperiale e il rilancio di un multilateralismo europeo, la Francia è forse storicamente il più critico tra i 27 dell’integrazione strategica e militare.
La Francia punta a tornare una potenza globale ed egemone in Europa, a modo suo. Poco dopo essersi insediato nel 2017, Macron ha stilato “L’iniziativa per l’Europa“: un documento dove afferma che “in materia di Difesa, l’Ue deve dotarsi di una forza comune di intervento, di un budget condiviso per la Difesa e di una dottrina d’azione condivisa. Nel documento si afferma che “solo l’Europa può assicurare una sovranità reale, ovverosia la nostra capacità di esistere nel mondo attuale al fine di difendervi i nostri valori e i nostri interessi”.
In nome della sovranità europea, nel 2019 Macron ha affermato la “morte cerebrale” della Nato. Una rivendicazione dietro cui si cela la spinta per l’autonomia strategica che la Francia sogna di tornare a perseguire. L’Italia è avvisata: dal Mediterraneo allargato (su tutti Libia e Tunisia), passando per Medio oriente (Egitto e Libano), fino alla ridefinizione dei partner prioritari per gli Stati Uniti, non sono pochi i dossier in cui gli interessi italo-francesi si sovrappongono.