Lidia Poët è stata la prima avvocatessa donna d’Italia. Inevitabile, nonché opportuno, che prima o poi si pensasse di fare una serie tv sulla sua vita, tra attivismo per i diritti dei più deboli e grande determinazione a indossare la toga in aula, attività a esclusivo monopolio maschile nei primi del Novecento. Fino all’arrivo della piemontese Lidia che, dopo essersi laureata in Legge con il massimo dei voti, ha imposto la propria visione, aprendo una strada che sembrava essere preclusa per sempre. Una bellissima storia, la sua. Ancora una volta, raccontata malamente da una serie Netflix appena sfornata. Suddivisa in sei dolorosissime puntate, La Legge di Lidia Poët, trova un senso solo nell’ottima regia di Matteo Rovere. Tutto il resto, dalla sceneggiatura agli sguardi da triglia tra i protagonisti, sembra essere stato generato automaticamente da una ChatGPT femminista. L’algoritmo gode, il pubblico decisamente meno.
Lidia Poët: Matilda De Angelis schiava di un’AI femminista
Lidia Poët è una figura che meritava di essere ricordata e omaggiata. Purtroppo, non è accaduto. Sembra impossibile riuscire a rendere una vita così appassionata poco interessante. Eppure, miracoli dell’algoritmo, Netflix ce l’ha fatta. Complice una fotografia à la Elisa di Rivombrosa, vediamo la protagonista Matilda De Angelis sciorinare ogni possibile cliché femminista di battuta in battuta. Se fossimo davanti a Una Pezza di Lundini, staremmo ridendo scompostamente. Eh, però, non lo siamo. Fortunosamente, la dizione finto piemontese di tutto il cast è così improvvisata da rendere pressoché incomprensibili la maggior parte dei dialoghi (per poterli analizzare, ci siamo basati sui sottotitoli). E così apprendiamo come Lidia Poët senta il peso del giudizio degli uomini ogni giorno, ma che questa zavorra non è ancora riuscita a cambiarla. Sì, ma cosa fa, nello specifico, Lidia Poët al lavoro? Tutto, ogni cosa. Perché è una donna. Quindi, può. A metà strada tra un Power Ranger e Chuck Norris, Matilda De Angelis in costume d’antan beve cognac, fuma oppio, frequenta bordelli, proferisce più parolacce del proverbiale scaricatore di porto, così come gli amici suoi. Fatto salvo che nei primi del Novecento, ci si desse del voi a ogni piè sospinto, quanto è femminista, quanta avanguardia trasuda da tutti quegli improperi fallici? La mitica Matilda non perde occasione per dire: “Merd@”, “Cazz0”, “Vaffancul0”, perché lei sì che è una tosta. Se avesse dodici anni e fosse in piena crisi pre-adolescenziale.
Lidia Poët: la trappola della super-donna
Matilda De Angelis nel ruolo di Lidia Poët non è una scelta di casting disprezzabilissima, anzi. La sua voce roca e i modi bruschi che spesso assume sul grande come sul piccolo schermo, potevano farla risultare, sulla carta, molto adatta a un personaggio femminile forte. Di certo più adatta, rispetto alla femme fatale tutta sospiri e canzoni gutturali che le è toccato interpretare in quel disastro che fu Rapiniamo il Duce (sempre Netflix). Eppure, non funziona nulla. Non funziona il fascio di luce á la Barbarella d’Urso perennemente puntato sul suo viso, tanto da renderla una specie di ologramma in costume. Non funzionano i dialoghi, come detto, perché fin troppo caricaturali: ogni parola che le esce dalla bocca deve per forza dipingere una super-donna senza macchia né paura.
Immaginiamo bene, invece, che Lidia Poët possa aver avuto dei dubbi, nella vita. Perfin paura, appunto, come ognuno di noi. E invece no, la narrazione femminista impone che le donne debbano essere, per forza, Avengers per nascita. Di più, sempre in grado di fiutare le situazioni ancora prima che accadano nella realtà fattuale. Non farlo, sarebbe segnale di inaccettabile debolezza. E di patriarcato nella scrittura. Così troviamo, all’inizio di ogni puntata, Poët che ha già risolto il caso di turno (ma fa l’avvocato o Basil L’Investigatopo?) solo sentendoselo raccontare per sommi capi. Passerà i restanti 50 minuti, quindi, a convincere gli altri dell’unico fatto dirimente per i destini del mondo conosciuto e conoscibile: lei ha ragione. Ciò risulta noioso a livello di trama, di snodi, di verosimiglianza anche fioca. Non aiuta, il sodale Eduardo Scarpetta, nel ruolo di un giornalista sentimentalmente interessato alla protagonista, che alla recitazione spiccia e scarna di De Angelis, contrappone un’enfasi teatrale sempre, ostinatamente sopra le righe e, quindi, indigestissima.
Lidia Poët: potevamo rimanere empowerate
Pietra tombale di questo abisso, la colonna sonora. In preda alla schizofrenia, si va dalla sempre splendida ma qui fuori contesto Florence + The Machine ad accenni di trap (che, ci dicono, nei primi del Novecento andasse fortissimo). Tutto sbagliat*, insomma. Ma allo stesso tempo osannatissimo da stampa e influencer vari in quanto bellissima storia di empowerment femminile. Sì, sulla carta, poteva e doveva esserlo. Un giorno, ci risveglieremo dal torpore di hashtag e trend topic e, forse, realizzeremo che l’ossessione per la narrazione di donne indefessamente infallibili non renda un buon servizio agli archi narrativi delle stesse nelle serie tv né, soprattutto, al femminismo in termini assoluti. Anzi, dipingerci come tostissime e pressoché immuni al fallimento, crea una sorta di ghettizzazione al contrario, come se ciò che portiamo in mezzo alle gambe ci desse una sorta di onniscienza. Se l’ha fatto un femmina, non può essere sbagliato. O meglio, non si può dire che lo sia. Smetteremo di vivere in un mondo dispari quando la libertà di critica (e di scrittura, anche dei personaggi) si affrancherà da Instagram, algoritmi e marketing. Prima di allora, tocca sorbirci storie loffie, retorica sul superpotere di essere nate femmine e tutta la grande, stoica determinazione che sempre e comunque ne deriva. Così è, se proprio ci piace. Potevamo rimanere empowerate.