Sei redazioni, sei direttori, sei stipendi pagati dai cittadini italiani per un totale di 1 milione di compensi per ruoli similari. Divisi tra logiche di partito.
Il caso della riforma approvata ma mai attuata
Mentre si discute del caso Fiorello, sul tavolo del prossimo ad della tv di stato italiana c’è un dossier caldo. Anzi, una riforma, approvata all’unanimità dalla Commissione di Vigilanza Rai il 12 febbraio 2015 e dal Consiglio di Amministrazione. La riforma fu avviata da Luigi Gabitosi che poi, nell’agosto dello stesso anno, lasciò il trono di ad di via Mazzini a Antonio Campo dell’Orto, nominato da Matteo Renzi. Da quel momento la riforma non è stata mai attuata. Tanto che Michele Anzaldi, agguerrito ex membro della Commissione in quota Italia Viva, ora in cerca di lavoro – come racconta a True-News.it – parla di “regime di illegalità”. Si tratta del piano che avrebbe accorpato le testate giornalistiche della Rai in due gruppi. Due newsroom che avrebbero permesso di snellire i costi e facilitare il processo di valorizzazione del lavoro degli oltre 800 giornalisti regionali che la Rai ha a libro paga.
Cosa prevede la riforma delle newsroom
Secondo la riforma, approvata ma congelata dai successivi ad, fino all’attuale Fuortes, le redazioni di Tg1,Tg2 e Rai Parlamento sarebbero state integrate nella “Newsroom 1”, Tg3, Rai News 24 e Tgr nella “Newsroom 2”. Entrambe le mega-redazioni avrebbero dovuto occuparsi di Rainews.it, il portale con più giornalisti d’Italia ma tra i meno visitati nel Paese. “La Rai – spiega Anzaldi – ha 800 giornalisti sparsi tra le varie regioni: potrebbe essere una potenza dell’informazione online”. E, invece, se si guarda alla top 100 dei portali online di news, elaborata da Comscore per Prima Online, relativamente al mese di settembre, si piazza al 30° posto.
Il problema non è solo negli scarsi risultati ma anche nelle remunerazioni che derivano dall’avere sette testate. “In questo modo – spiega Anzaldi – ogni partito può piazzare il suo direttore. Se ci fosse una sola newsroom, non verrebbero accontentati tutti”. Insomma, le solite logiche di partito che stringono i polsi alla Rai E così i sei direttori, in barba alla riforma, continuano a guidare le loro singole redazioni e a percepire singolarmente i loro stipendi. Attenzione, non si parla di cifre esorbitanti, ma un accorpamento potrebbe sicuramente giovare alle casse di mamma Rai.
I compensi dei direttori delle testate
Monica Maggioni dirige il Tg1 e percepisce 235mila euro annui, Gennaro Sangiuliano, appena proposto come Ministro della Cultura, ora direttore del Tg2, incassa 209mila euro, Mario Orfeo (Tg3) 234mila euro, Paolo Petracca (Rai News, Televideo e Rainews.24.it) 200mila euro, Antonio Preziosi (Rai Parlamento) 239 mila mentre Alessandro Casarin, che guida il Tgr, percepisce annualmente 235mila euro. Se la matematica non è un opinione, il totale è di 1.352mila euro. Una cifra che potrebbe essere reinvestita in un’organizzazione, meno divisa, ma più efficiente. Appunto come accade nel resto d’Europa, a partire proprio dalla BBC che, quest’anno, compie 100 anni.
I costi di esubero dei giornalisti
Ma non solo. Il piano prevedeva l’ottimizzazione delle risorse umane e degli impieghi produttivi risolvendo, forse definitivamente, il problema dell’esubero dei 300 giornalisti, sostenuti dal canone. Il progetto, approvato ma congelato e mai rispettato, avrebbe permesso, nel primo anno di attuazione della riforma, un risparmio di dieci milioni e di settanta milioni dal terzo anno. Numero non irrisori. E parliamo di una società, la Rai, che non vanta certo bilanci sorridenti.
L’ultimo bilancio della Rai
L’ultimo semestrale – come comunica una nota di viale Mazzini (il bilancio completo non è ancora stato reso pubblico) – si è chiuso con un risultato in utile di 45,9 milioni di Euro, in miglioramento rispetto al corrispondente periodo dell’esercizio precedente (utile netto di 9,7 milioni di Euro). Al 30 giugno 2022 la posizione finanziaria netta consolidata risulta negativa per 301,0 milioni di Euro in miglioramento rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente.
Ma si può certamente fare meglio. Partendo dalla riorganizzazione del settore giornalistico. Anzaldi non usa mezzi termini: “Giorgia Meloni può fare la storia della Rai attuando la riforma, approvata nel 2015 ma ancora congelata”.