Masoud Pezeshkian è dal 5 luglio presidente dell’Iran dopo aver vinto le elezioni convocate dalla Guida Suprema Ali Khamenei in seguito alla morte del presidente Ebrahim Raisi nell’incidente in elicottero del 19 maggio scorso. Il Paese che si troverà a gestire l’ex chirurgo e candidato del campo moderato e riformista vive diverse sfide economiche, sociali e geopolitiche. A partire dalla sfiducia della popolazione nel modello della Repubblica Islamica. Di questo parliamo con lo storico e analista geopolitico Alessandro Cassanmagnago, studioso della Repubblica Islamica.
Cosa dicono queste elezioni dell’Iran di oggi?
Questa tornate elettorale straordinaria nata dalla morte di Raisi è stato l’ennesimo segnale di come la popolazione iraniana sia sempre più distante dai vertici politici. Il primo turno ha segnato un minimo storico di partecipazione degli aventi diritto al voto, un segnale fortissimo di delegittimazione del sistema. Gli iraniani non credono più nella Repubblica Islamica, la disaffezione è ai minimi dalla Rivoluzione del 1979 a oggi.
Che lettura si può dare del processo che ha portato all’elezione del nuovo presidente?
Sicuramente c’è un aspetto da segnalare: nonostante si sia di fatto riproposto lo scenario visto nel 2021, quando il Consiglio dei Guardiani ha respinto la maggioranza dei candidati che si erano proposti, questa volta nel quadro delle limitazioni imposte dall’organo di giuristi laici e religiosi nominati dalla Guida Suprema e dal Parlamento è stata garantita una cauta parvenza di competitività politica. Se l’ultima volta erano stati esclusi tutti i candidati non conservatori, questa volta il riformista Masoud Pezeshkian è stato ammesso in una rosa ristrettissima di candidati. E ha vinto.
Che figura è Masoud Pezeshkian? Si è parlato di lui addirittura come di un rivale del sistema…
Pezeshkian, si è detto nelle prime ore dopo il voto, è stato presentato da alcune fonti come un candidato democratico o anche in qualche modo in rotta col regime e la Guida Suprema Ali Khamenei. Non è così. Pezeshkian è uomo del sistema politico della Repubblica Islamica, già ministro e vicepresidente del Parlamento. Non ha intenzioni rivoluzionarie, è parte di un sistema, di una corrente del sistema. Il nezam, il sistema politico di Teheran, è composto da varie fazioni e gruppi che si contendono le posizioni al suo interno e ruota attorno all’asse costituito dalla Guida Suprema e dagli apparati militari e di sicurezza. Tutte queste fazioni in oltre quarant’anni si sono contese le posizioni di vertice del sistema politico, rispettando la logica che la figura con la massima postura politica restava la Guida Suprema, che ha l’ultima parola sui dossier più pesanti.
Non si rischia una dicotomia con la presidenza?
SSiavush Randjbar-Daem nel suo saggio The Quest for Authority in Iran parla della presidenza come un potere che esiste in perenne dualismo e contrasto di fondo con la Guida. Sono due cariche politiche apicali sanzionate dalla Costituzione iraniana ma che di fatto sono in perenne conflitto tra di loro. Se da una parte quella dalla Guida Suprema è una carica vitalizia e perenne, dall’altro il presidente è una carica elettiva. C’è una grande disparità di potere fin dall’inizio, e i presidenti cercano sempre di costruire una base di potere oltre che di consenso tra gli apparati per valorizzare la loro influenza negli affari ordinari, dall’economia alle questioni legislative e alla rappresentanza formale del Paese all’estero. Gli aspetti legati alla politica estera più operativa e alla difesa vengono discusse con l’ultima parola che resta alla Guida Suprema.
Pezeshkian si trova di fronte al rischio di conflittualità con Khamenei?
Alla lunga Rafsanjani, Katami, Ahmadinejad e Rouhani, presidenti dell’era Khamanei, sono entrati tutti in contrasto con la Guida nel loro mandato. Raisi molto meno. Pezeshkian andrà valutato su questo fronte: sarà assertivo? Uscirà dal reticolato delle sue mansioni per influenzare l’alta politica estera regionale sul campo? Vorrà diventare una figura di spicco del sistema? La sua presidenza parte con promesse importanti: ad esempio, migliorare il dialogo con l’esterno, la metafora di “allungare la mano” ritenuta diretta agli Stati Uniti, a Paesi ancora non normalizzati nei rapporti con l’Iran come Egitto e Emirati Arabi Uniti. Non penso chiaramente a Israele, con cui la “sinistra” del potere iraniano ha un rapporto teso da decenni. Poi c’è la politica economica, dove le aspettative sono alte, e sarebbe interessante vedere se Pezeshkian proporrà dei miglioramenti sociali.
Qual è lo stato dell’arte delle tensioni sociali iraniane?
Il problema delle tensioni sociali presenti in Iran non è solo verticale, una dialettica tra vertice repressore e popolazione repressa. Ci sono anche fasce della popolazione, spesso le più basse e fragili, dipendenti dal sistema caritatevole e assistenziale della Repubblica Islamica, che rappresentano lo zoccolo duro del sistema politico iraniano. Soprattutto sul fronte conservatore. Queste fasce sono più antagoniste alla classe media e medio-bassa, che chiede maggiore riforme, un alleggerimento delle norme islamiche sulla vita sociale, più attenzione ai problemi economici. La sfida è sia verticale che orizzontale, un fatto che nella nostra vulgata è dimenticata. Parlando con termini occidentali, più che di diritti civili sembra essere una questione di lotta di classe.
Quanto sarà impellente tutto ciò nell’agenda presidenziale?
Una delle sfide di Pezeshkian sarà quella di mediare tra varie fratture. Saeed Jalili, avversario di Pezeshkian al ballottaggio, ha perso ma preso comunque 13,5 milioni di voti e il 45,24% contro i 16,3 milioni di voti e il 54,76% del vincitore. Jalili ha interpretato una visione più conservatrice, e evidentemente c’è qualcosa che va risolto nella società iraniana.
Pezeshkian potrà, per giungere a questo obiettivo, usare la diplomazia per lavorare all’abbassamento della morsa delle sanzioni?
Pezeshkian ha detto che darà priorità all’economia, e qui rientrano anche temi come le sanzioni. Si parla di un governo di alto profilo per mediare con le cancellerie internazionali e, anche se sembra improbabile il ritorno di Mohammad Javad Zarif al ministero degli Esteri, il regista degli Accordi sul Nucleare è un grande sponsor del neo-presidente e si è esposto molto con lui. Un ruolo potrebbe ricoprirlo apertamente. Si parlerà di una nuova diplomazia nucleare anche in vista del possibile ritorno di Donald Trump e del Partito Repubblicano al potere in America.
Che scenari comporterebbe?
Mike Pompeo e altri falchi anti-Iran sono dati già in fermento contro la Repubblica Islamica. Lo scenario di un governo repubblicano con un clima anti-Iran più duro di quello che si respira oggi, dopo anni di mancati miglioramenti sotto Biden, impone all’Iran di giocare al meglio la sua politica estera. Trump è una variabile difficile da valutare: da presidente è stato duramente anti-Iran, ma ora in campagna elettorale parla dicendo che punta a far rientrare l’Iran negli Accordi di Abramo. Questo potrebbe rappresentare uno spiraglio non secondario.