Ogni Paese ha alle sue spalle una storia complessa, che in alcuni casi può assumere connotati divisivi o addirittura vergognosi. Nel passato recente non sono pochi gli scheletri negli armadi di storie nazionali che hanno conosciuto dittature, genocidi, guerre e violazioni dei diritti umani. L’intero Novecento è una vasta carrellata di regimi che “hanno soprattutto fatto cose orrende”.
Il cambiamento non avviene in un giorno
Le parabole delle dittature raramente si concludono per morte naturale. Quasi sempre le loro traiettorie vengono interrotte da cesure storiche, momenti spartiacque che fanno voltare pagina ai Paesi, rotture che comportano un cambio di regime. Violento o meno che sia, il cambiamento non avviene mai da un giorno all’altro, le restaurazioni di un ordine – democratico o autoritario – non piombano all’improvviso. Sopraggiunge sempre un fondamentale intervallo tra un regime politico e l’altro, un periodo intermedio e decisivo di definizione del nuovo assetto istituzionale: la Transizione.
L’eredità di Tutu e la terza via alla fine dell’apartheid
Il 26 dicembre è morto Desmond Tutu, che fu protagonista insieme a Nelson Mandela di una transizione paradigmatica in Sudafrica. Come tutte, anche quella sudafricana ha avuto le sue controversie: “miracolosa” per chi ne ha sottolineato il carattere pacificatorio, “annacquata” per chi ha osservato la mano leggera nelle condanne comminate. Quello che è certo è le modalità con cui si è concluso il regime di apartheid rappresentano un unicuum storico e politico: una terza via inesplorata nei cambi di regime.
Fine regime: resa dei conti o conciliazione?
Fino ad allora il mondo aveva assistito a due tipi di transizione, due modalità antitetiche di fare i conti con la propria storia: la resa dei conti che punta a stabilire una verità storica, facendo luce sulle colpe del precedente regime e a risarcire le vittime; e quella incentrata sulla conciliazione, che punta a una pacificazione nazionale tra due parti in conflitto.
L’anno zero della Germania post nazista
L’esempio più famoso del primo tipo è quello tedesco. Il 1945 per la Germania è lo Jahr Null, “l’anno zero” per un Paese che col Processo di Norimberga è stato costretto a fare pesantemente conti con il proprio passato. Il Paese ha vissuto un lungo Vergangenheitsbewältigung, il “superamento del passato” con un invasivo programma di denazificazione imposto dagli Alleati. Diffusione di un senso di colpa storico e processi draconiani sono stati gli strumenti imposti dai vincitori per far rielaborare ai tedeschi l’esperienza nazista, prendendo coscienza delle proprie responsabilità e varando il più ampio programma di risarcimenti della storia. Al netto dei ripensamenti emersi in anni più recenti, la resa dei conti col passato nazista in Germania è avvenuta in modo netto e inequivocabile.
Il Processo di Tokyo: oltre 5mila condanne
Così come in Giappone, l’altra grande sconfitta della II Guerra Mondiale, sottoposta a occupazione militare alleata fino al 1952. Il Processo di Tokyo, omologo nipponico di Norimberga, comminò oltre 5mila condanne tra carcere e pene di morte e oltre 200mila epurazioni di funzionari pubblici.
Italia: la conciliazione dopo la guerra civile
Le contingenze storiche hanno fatto sì che negli stessi anni in Italia avesse luogo una Transizione differente. Nei burrascosi anni tra il 1943 e il 1948 – dal crollo del fascismo alla definitiva instaurazione del regime repubblicano – il nostro paese ha chiaramente portato avanti un modello conciliatorio di transizione. Uno storico americano ha parlato di “polvere sotto il tappeto”, alcuni studiosi nostrani hanno parlato di “colpo di spugna sui crimini fascisti”, mentre la nuova classe dirigente repubblicana, impegnata nella ricostruzione fisica e morale del Paese – dopo una breve finestra di epurazioni e repressioni contro i fascisti – optò per una rapida autoassoluzione. I diciotto mesi di guerra civile durante la Liberazione hanno permesso una parziale resa dei conti tra fascisti e antifascisti, mentre il riconoscimento del nostro paese come potenza cobelligerante con gli Alleati ha evitato una Norimberga italiana.
L’amnistia di Togliatti
Il 22 giugno 1946, a soli 14 mesi dalla Liberazione, Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia dell’ultimo governo del Regno d’Italia – che si dimise qualche settimana dopo il referendum del 2 giugno – concesse l’amnistia che porta il suo nome, che mise sostanzialmente la parola fine alla resa dei conti nazionale. Lo storico Mimmo Franzinelli ha analizzato come dei circa 43mila italiani indagati per collaborazionismo solo 6mila furono condannati; di questi 5300 beneficiarono in meno di un anno di amnistia, indulto o provvedimenti di grazia. Di fatto per i crimini del Ventennio alla fine ci furono 600 condanne effettive (delle 259 a morte furono effettivamente eseguito soltanto 91). Nello stesso periodo in Francia ci furono oltre 50mila condanne e 20mila epurazioni; in Germania nel 1951 venne concessa un’amnistia, dopo che il processo di denazificazione aveva portato a 90mila condanne e quasi 2 milioni di interdizioni dagli uffici pubblici.
La Giustizia di transizione inaugurata dopo Franco
La Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica rappresentò una rivoluzione nei processi di transizione. Da qualche decennio i politologi avevano iniziato a parlare di “Giustizia di transizione”. Nel 1975 con la morte – nel suo letto – di Franco era iniziata la Transición pactada in Spagna, “un patto per dimenticare” e ritornare alla vita democratica, “sin ira” dopo 40 anni di dittatura; nel 1989 il crollo del Muro aveva avviato una nuova ondata di democratizzazione in Est Europa e in America Latina. Regimi decennali finivano per lasciare spazio a democrazie (a volte solo apparenti) che le transizioni modellavano all’insegna del compromesso coi vinti o dell’affermazione dei vincitori. A interrompere il pendolo tra verità e conciliazione irruppe la transizione sudafricana, che tra il 1995 e il 2003 riuscì a trovare un amalgama tra i due pilastri.
Il perdono come protocollo giuridico
Come ha recentemente analizzato Giuliano Ferrara su Il Foglio, “la commissione fu un’altra via politica alla giustizia”. Ebbe il merito di riconoscere il carattere peculiare dell’apartheid, un regime di offesa sistematica a una maggioranza oppressa e di difesa, al tempo stesso, di una minoranza coloniale che rivendicava titoli inesistenti al suo predominio eternizzato della violenza. Ebbe soprattutto il merito di introdurre il criterio della riconciliazione, e delle pratiche di amnistia ove possibile, all’interno della ricerca della verità, portare oppressi e oppressori, con le loro testimonianze a uno stesso bancone processuale, introdurre come protocollo giuridico l’istituto religioso e etico del perdono.
La pacificazione della “nazione arcobaleno” di Tutu
Nel modello di Tutu le vittime avevano diritto alla verità, ma non alla vendetta. Vi furono grandi polemiche per l’ampio numero di amnistiati, ma la Commissione attraverso il confronto e un complesso contraddittorio tra martoriati e carnefici diede una nuova idea di Giustizia di Transizione: non più punitiva o assolutoria, ma rigenerativa. Nei processi di transizione politica prendeva un ruolo attivo la memoria collettiva: la pacificazione della nuova “nazione arcobaleno” – la dicitura Rainbow Nation è attribuita proprio all’arcivescovo premio Nobel nel 1984 – non veniva imposta dall’alto o tacitamente accordata, ma attraverso la liberazione della testimonianza.