“Abbiamo trovato ampia disponibilità da parte del presidente Draghi a risolvere i problemi sul tavolo. Lavoreremo a Pasqua e Pasquetta e subito dopo si arriva in Parlamento”, si può discutere sull’attuabilità della proposta di Matteo Salvini di mettere sotto la politica anche durante le festività pasquali per trovare la quadra sulla delega fiscale.
Quello che si può provare a fare, sfruttando questi giorni di riposo, è il punto sull’operato del governo e sui suoi rapporti con il parlamento che – a più di un anno dall’insediamento e meno di dodici mesi dal voto della fine della legislatura – sembrano tutt’altro che idilliaci.
Punto fermo
La politica italiana è a un punto fermo, pur avendo enormi questioni sul tavolo: incombono le riforme della giustizia, quella fiscale, dell’età pensionabile, la messa a terra del Pnrr, la legge delega e altre.
L’elezione del Presidente della Repubblica e lo scoppio della guerra in Ucraina sono coincise – o forse hanno trascinato di forza – il governo nella sua fase finale, quella che dovrebbe traghettare il paese a elezioni. Manca un anno al voto, ma i partiti sono già entrati a pieno titolo in campagna elettorale. Se questo è un bene per le dinamiche politiche e democratiche del paese, non sembra esserlo per l’esecutivo.
La politica si è fermata?
Una cosa è emersa chiaramente anche nello sconquasso che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella, il momento in cui i nodi sono venuti al pettine per l’esecutivo: il governo Draghi non è in discussione. La possibilità di una caduta di Draghi è uno scenario da escludere del tutto: i partiti sono già proiettati al 2023 e più di loro i parlamentari che puntano alla conclusione della legislatura.
Se Draghi non deve cadere, non è però detto che debba governare a pieno titolo. Sono ormai mesi che il “governo dei migliori” è impantanato, bloccato nelle secche di una politica in cui i partiti – ognuno con le sue ragioni – hanno scelto di paralizzare l’attività legislativa. Da un po’ di tempo la politica si è fermata.
Rapporto compromesso
All’origine dello stallo c’è la natura stessa dell’esecutivo Draghi: un governo del Presidente, nato per scelta di Sergio Mattarella, di fronte all’incapacità della politica di dar vita a un esecutivo in grado di affrontare le due enormi crisi dell’anno 2021, la pandemia e i primi passaggi del Pnrr.
Un altro fattore di crisi che ha portato alla paralisi dell’esecutivo è la natura eterogenea della sua composizione. Dopo un’iniziale fase di tacito accordo, i partiti sembrano essersi sotterraneamente riorganizzati a accordati per tornare alla carica. In questi giorni si va riaffermando il primato della politica sui tecnici, che hanno gestito una fase di ingovernabilità, ma che devono lasciare il passo entro il 2023.
Guerra a colpi di Decreti
La manifestazione più evidente di questo rapporto compromesso sta nelle modalità di svolgimento dell’attività legislativa. Le contingente emergenziali di questi giorni (guerra in Ucraina, bollette e approvvigionamento) stanno imponendo al governo di governare quasi esclusivamente con Decreti legge, provvedimenti che hanno subito forza di legge, che le Camere devono recepire con poche possibilità di discussione e modifica.
I gruppi parlamentare vedono questi Decreti come compressione della loro attività, e decidono di rifarsi, ostacolando i normali disegni di legge proposti dal governo Draghi. Dietro la partita per i disegni legge si giocano le iniziative più importanti su cui è in ballo l’esecutivo.
Stallo su catasto e Pnrr
I punti su cui governo e parlamento devono trovare una quadra, prima della fine della legislatura, sono molti e importanti. Si comincia con l’annosa e sempiterna questione del catasto. La legge delega ha in oggetto importanti temi di natura fiscale, su cui il centrodestra sta insorgendo, a suo dire, per evitare un aumento delle tasse. Da sempre Salvini, Berlusconi e Meloni fanno della tutela delle proprietà immobiliari degli italiani un loro cavallo di battaglia. Ecco allora che si preannunciano paletti nella legge delega da parte del centrodestra, in particolare sull’articolo che prevede la riforma del catasto, che è fermo al 1939.
Fino a pochi mesi fa sembravano conditio sine qua non della politica italiana, oggi questioni come il Pnrr sembrano essere passate in secondo piano, eppure il Piano di ripresa e resilienza era di fatto una delle sigle sotto le quali era nato il governo Draghi. Da qui a fine anno il nostro paese deve ricevere oltre 40 miliardi – 24 entro giungo, 21 a fine anno – salvo il raggiungimento di decine di obiettivi posti dal governo. Riforme che impattano su temi cari ai partiti della maggioranza: bandi e concorrenza, giustizia e scuola. Temi su cui è inevitabile uno scontro tra posizioni politiche.
I soliti irrisolvibili della politica italiana
Un confronto di bandiera si è ormai avviato anche sulla discussione alla riforma della giustizia. La proposta di Cartabia non riguarda le aule di tribunale, ma l’organizzazione della magistratura, travolta da scandali che hanno intaccato il suo funzionamento interno. Sulla riforma è Italia viva di Matteo Renzi ad essersi impuntata contro una riforma annacquata a forza di mediazioni.
Una posizione che evidenzia bene il rapporto di ambiguità e non detti tra le forze che supportano il governo e l’esecutivo stesso. Uno scenario complesso, reso ancor più problematico dal referendum sulla giustizia atteso per il prossimo 12 giugno. I cinque quesiti si sovrappongono alla riforma, e rischiano di dar vita a una consultazione sulla Legge Cartabia.
E poi c’è l’eterno ritorno della legge elettorale, lo scoglio su cui si infrange ogni legislatura della Seconda repubblica. Al momento siamo alle fase delle proposte per modificare il sistema dei collegi e il modello di riferimento. Una modifica del Rosatellum si rende necessaria – per una serie di criticità espresse dalla Corte costituzionale – soprattutto per la modifica costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari a partire dalla prossima legislatura. Al momento i partiti sembrano lontani dal trovare un accordo – c’è addirittura chi sostiene che non debba essere la politica a modificare i collegi, ma i tribunali.
La Via Crucis di Draghi al 2023
Sono tante le questioni dell’agenda del governo che rischiano di rimanere lettera morta. C’è una forte percezione di paralisi dell’esecutivo, di fronte al rallentamento dell’azione legislativa. Emergono spaccature tra i partiti, nella loro ricerca a tutti i costi di un incidente per mettere in stand by il governo.
In pochi mesi Draghi è passato dal sogno di una salita al Colle più alto della politica, all’incubo di un discesa verso il Calvario di una paralisi politica che rischia di guastare più di un anno di iniziative e di far perdere al nostro paese occasioni che difficilmente potranno riproporsi.
Una via crucis in cui Draghi – per troppo tempo tratteggiato dalla stampa in odore di santità – è tutt’altro che esente da colpe. L’elezione del Presidente della Repubblica a gennaio è stato un primo campanello d’allarme, che il premier non ha voluto ascoltare. Servirà il riavvio di un dialogo per far rientrare lo scollamento tra governo e partiti, mettendo da parte fiducia e decreti: per non trasformare la via crucis in un martirio.