Le elezioni in Libia previste per la vigilia di Natale non avranno luogo. Lo ha fatto sapere l’Alta commissione elettorale libica (Hnec) la mattina del 22 dicembre, a meno di 48 ore da quella che doveva essere l’apertura delle urne. L’organismo, incaricato di monitorare la preparazione e la celebrazione delle presidenziali programmate per il 24 dicembre, ha fatto sapere che risulta “impossibile” organizzare il voto per la data stabilita. La comunicazione è arrivata tramite una lettera inviata da al-Hadi al-Sagheir – capo della commissione – al presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, nella quale non si precise se e a quando le elezioni saranno rimandate.
Un colpo durissimo agli sforzi internazionali
L’annullamento di fatto delle presidenziali in Libia rappresenta un colpo durissimo per gli sforzi internazionali volti a mettere fine a dieci anni di instabilità tramite una soluzione politica concordata. Si conclude così, nell’incertezza, un anno iniziato sotto i migliori auspici con la formazione – a marzo 2021 – del Governo di unità nazionale (GNU) presieduto da Abdulhamid Dabaiba, che ha sostituito il defunto Governo di accordo nazionale (GNA) capeggiato da Fayyez al Serraj. Il principale compito del GNU era proprio quello di traghettare il paese nordafricano verso l’appuntamento elettorale, dove lo stesso Dabaiba si è presentato come candidato alla guida dello Stato.
Ha vinto la frammentazione del post Gheddafi
Ciononostante, la frammentazione del potere che caratterizza la Libia sin dalla caduta dell’ex rais Muammar Gheddafi alla fine sembra aver avuto la meglio. Con la caduta del regime, sull’onda lunga delle rivolte arabe del 2011, sono inevitabilmente emerse quelle stesse forze centrifughe che oggi remano contro la ricomposizione dello Stato libico. Ma cosa è andato storto fino a causare l’annullamento delle elezioni?
Una legge elettorale con falle clamorose
“Un primo problema è sicuramente il framework legale che doveva regolamentare le elezioni”, spiega a True News Mattia Giampaolo, Research Fellow del Centro Studi di Politica Internazionale CeSPI. “Si parla di una legge praticamente imposta dal presidente della Camera di Trobruk, Saleh, aspramente criticata perché non aveva attraversato l’iter istituzionale per una discussione seria. Presentava, quindi, falle importanti che si sono viste in maniera pratica con le esclusioni e le riammissioni di candidati, anche di spicco, come Khalifa Haftar e Saif al-Islam Gheddafi (figlio del defunto rais, ndr)”, prosegue lo studioso.
La creazione di numerosi localismi politici
Ma il dato tecnico non basta da solo a spiegare quanto accaduto. “L’impossibilità di andare alle urne – puntualizza ancora Giampaolo – è data anche da fattori contingenti e strutturali. Negli ultimi tre anni, a causa dell’intervento di forze internazionali e regionali si sono creati dei ‘localismi politici’: da una parte il GNU, che sebbene riconosciuto dalla comunità internazionale e con una struttura politica ‘solida’ non riesce a tenere insieme il Paese, dall’altra Bengasi con Haftar, dall’altra ancora l’emergere di nuovi attori come il Fezzan e Misurata, considerata da molti una vera e propria città-Stato. Poi ci sono le milizie, ancora forti e presenti sebbene ai colloqui di Ginevra (Libyan Political Dialogue Forum, LPDF) si sia tentato di far avanzare una riforma della sicurezza. Nonostante la tregua (pattuita a fine 2020, ndr) relativamente regga ancora, lo spettro della tensione sociale è sempre dietro l’angolo”.
Ed ora potrebbero riaccendersi le tensioni
Cosa c’è da aspettarsi quindi? Instabilità del livello già visto in passato? Secondo Giampaolo “non è da escludere che si riaccenda la miccia delle tensioni, magari non come nel 2019”. In tutto questo va considerato che “a livello internazionale il clima non è più polarizzato come prima”, spiega lo studioso. “Basti pensare – prosegue – al disgelo avvenuto in questi mesi tra Qatar ed Emirati (che sostenevano rispettivamente il GNA di Tripoli e il maresciallo Haftar di Bengasi). La Libia resta comunque il campo di battaglia di una lotta per l’egemonia fra attori regionali come la Turchia, centrale nel sostegno a Tripoli, il cui intervento durante l’offensiva di Haftar ha creato asset e situazioni che adesso Ankara non ha intenzione di abbandonare. Motivo per cui il ritiro dei mercenari stranieri è ancora di là da venire, nonostante gli appelli venuti dalle varie conferenze internazionali come quella di Berlino”.
La vera domanda a cui rispondere, al momento, riguarda la leadership. Chi comanda adesso in Libia, considerato che Dabaiba doveva portare il paese alle urne (che invece resteranno chiuse)?
Difficile stabilire chi detiene il pallino del gioco
“Come sempre in queste occasioni è difficile poter dire con certezza chi fa cosa o chi detiene il pallino del gioco”, osserva a True News Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI, Centro Studi internazionali. “Detto ciò possiamo dire due cose – prosegue – La prima riguarda il GNU, che non è decaduto. Nonostante la sfiducia di settembre e gli ultimi fatti recenti è ancora incaricato di governare, seppur per la sola parte della Tripolitania dato che la Camera dei Rappresentanti di Bengasi-Tobruk ha disconosciuto l’operato del premier all’interno della road map promossa a Ginevra. Ad ogni modo, qualora dovesse cadere definitivamente l’esecutivo (ipotesi non così peregrina in virtù anche delle iniziative personali dei candidati presidenziali, come quella andata in scena a Bengasi con Haftar, Bashaga e altri, tutti uniti o quasi contro Dabaiba), solo allora in quel caso il potere materiale dovrebbe passare nelle mani delle uniche due istituzioni legittime e legittimate nell’esercizio, ossia la Camera di Bengasi-Tobruk e l’Alto Consiglio di Stato di Tripoli”. Resta però aperta la domanda sul futuro dell’esecutivo ad interim, che ha “mancato” il suo obiettivo principale di organizzare le elezioni.
Cosa ne sarà ora dell’esecutivo ad interim?
“Non è chiaro se il governo di Dabaiba rimarrà o se sarà sostituito, e nel caso ciò avvenisse da chi formalmente”, afferma Dentice. “In tutto questo mare magnum di incertezze una cosa deve essere chiara: l’assenza di una visione politica chiara e possibilmente unica potrebbe avere conseguenze nefaste, anche peggiori rispetto ad un conflitto militare. Ad oggi rischiamo di tornare a quanto avvenuto nel 2014, con la reiterazione di una Libia divisa a metà su tutto. Se si vuole evitare che l’anarchia diventi strutturale bisogna intervenire in fretta, con chiarezza e coesione, almeno internazionale quantomeno”, aggiunge l’esperto.
Il ruolo dell’Italia sullo scacchiere internazionale
In conclusione vale la pena chiedersi che ruolo può (o deve) giocare l’Italia per ravvivare la soluzione politica. “Anche in questo caso è difficile azzardare ipotesi”, argomenta Dentice. “Però è evidente che l’Italia sposa la posizione europea e nella fattispecie quella relativa alla possibilità di tenere elezioni libere come previsto dalla road map del LPDF. Il punto è che ad oggi è difficile sposare una posizione simile quando mancano tutte le condizioni minime, politiche e di sicurezza, e soprattutto quando anche all’interno della Comunità internazionale è mancato una pressione e una leva importante da esercitare nei confronti degli attori libici e degli attori esterni coinvolti nella lotta di potere per il futuro del Paese”.
Dentice prosegue: “In questo senso, l’Italia ha salutato con piacere il ritorno in scena dell’Ambasciatrice USA Stephanie Turco-Williams nel suo nuovo incarico di Consigliere Speciale del Segretario Generale ONU per la Libia. Non è un caso, infatti, che dall’uscita di scena della Williams e con l’insediamento in febbraio di Jan Kubis quale rappresentante ONU per la Libia, il processo del LPDF si è arenato e non ha trovato passi in avanti, specie dopo aprile quando lo GNU ha assunto pienamente l’incarico di governo”.
Possibile rinvio a inizio 2022 (se tutto collaborano)
“In questa prospettiva, potrebbe essere utile lavorare per un rinvio del voto entro i primi mesi del 2022, ma in questo lasso di tempo tutte le parti devono lavorare affinché si giunga ad un accordo condiviso su tutto quello che non è stato fatto finora, a partire dalla legge elettorale, per poi passare a definire una lista di candidati presentabili, a chi garantirà sicurezza nei seggi e agli istituti internazionali che valideranno il voto. Solo dopo aver definito una cornice legale sarà possibile effettivamente parlare di elezioni. Su questo punto l’Italia mi pare si sia espressa molto chiaramente, riconoscendo un ruolo importante proprio all’amb. Williams”, conclude Dentice.