di Giuseppe Santagostino
Per capire la sensazione di inadeguatezza e di continua affannosa rincorsa del Pd di Zingaretti di fronte al variare delle condizioni esterne, occorre riandare al Lingotto e all’ipotesi maggioritaria da cui nasceva il nuovo Partito, frutto della confluenza (ingombrante) del defunto PCI/PDS/DS e della Margherita, ovvero ciò che restava della Sinistra DC dopo l’implosione della Balena Bianca; si dava corpo all’esperienza dell’Ulivo in un momento dove, operando il Porcellum di Calderoli, il premio di maggioranza legato alle coalizioni garantiva maggioranze parlamentari importanti.
Per tutta la Prima Repubblica, dove la rappresentanza parlamentare era rigorosamente proporzionale, l’instabilità dei Governi era affare ordinario ma ciò nascondeva ben altra permanenza consolidatasi dagli anni del Centrosinistra, ovvero il potere, spesso incestuoso, tra gli apparati dello Stato e le aziende variamente partecipate dallo Stato stesso, sistema bancario e IRI in testa, che fungevano da Governo Ombra.
Ciò ha significato sino al 1992, data di collasso della Prima Repubblica, ma quel che a noi importa maggiormente anche dopo, che la Politica in Italia si era strutturata su due livelli di cui quello parlamentare e governativo rappresentava la facciata mentre il lavoro sporco veniva demandato all’antitesi spontanea dell’ENA (la scuola di formazione degli alti burocrati in Francia) essendosi costituita da noi una casta di funzionari pubblici e pubblico-privati nata on the road e saldatasi sul campo, tanto che ancor oggi in cui i Partiti non assolvono nemmeno più al loro ruolo di rappresentanza popolare ma rappresentano solo se stessi, il funzionamento dello Stato, delle Regioni e dei grandi Comuni, viaggia lontano da tanto squalificata politica.
Il PD del Lingotto cercava, almeno in sede teorica, di recuperare le due tradizioni principali del Centro Sinistra per trovare un soggetto politico in grado di dare una direzione al Paese rispondendo, peraltro in modo ostinatamente conflittuale e senza mai tentare di capirne le ragioni, ai due competitor affacciatisi, ovvero Berlusconi e la Lega; anzi il mood ereditato dall’Ulivo con la demonizzazione di Berlusconi come usurpatore della centralità della politica e l’avversione per il separatismo di Bossi-Miglio, divenne alla fine l’unico collante di quella coalizione diventata partito, in cui i più tetragoni, ovvero gli eredi del PCI, cercavano costantemente la supremazia e, non ottenendola, si mettevano appena possibile di traverso.
Esemplare la vicenda del Governo Prodi II, vissuto a cavallo del Lingotto tra il 2006 e il 2008, nato dall’Ulivo e dissolto nell’Ulivo senza che il PD appena nato, proprio per questa conflittualità, fosse riuscito a farne sintesi di potere come da premessa, anche se le colpe alla fine ricaddero poi su Bertinotti: ciò diede avvio alla terza era Berlusconi, alla scommessa ribassista dei Mercati e al Governo Monti.
L’esperienza della fine dell’Ulivo pare arrivare ad una maturazione, dopo la parentesi Letta destinata a metabolizzare il parziale successo di Monti confluito nella nuova maggioranza, con la Segreteria Renzi, i defenestramento di Letta e la conquista di Palazzo Chigi che pongono il PD come partito centrale e propulsivo, sia pure con una maggioranza assai eterogenea ottenuta spigolando qua e là.
Ma, e qui si arriva alle sorgenti dello zingarettismo, la forza acquisita da Renzi nel Partito e nel Governo, amplificata da un carattere ai limiti della nevrosi, contrasta con i due assiomi portati in dote dal disciolto PCI: nel Partito comandano i vecchi comunisti e non si governa il Paese a qualsiasi costo (leggi l’alleanza con Verdini) ma lo si condiziona tutt’al più dall’opposizione.
Se per Renzi abbiamo parlato di nevrosi, qui ci troviamo di fronte ad un’altra di pari grado maturata negli anni di opposizione al Centrosinistra quando il PCI era considerato inaffidabile per governare il Paese ma utile per mantenere l’ordine sociale ed economico: il consociativismo con il corollario della mano libera nelle Regioni Rosse per creare esentasse il contropotere del sistema cooperativo, genera la figura del Partito di opposizione responsabile con il suo rosario di Istituti oppositivi (Sindacato in testa) destinato a creare un vocabolario e un credo antitetico al potere democristiano.
Nel confluire per così dire berlingueriano in unico Partito questo habitus mentale è finito per permanere nemmeno troppo sottotraccia nei dirigenti e nel popolo ex-comunista determinando la frattura contro il modernismo renziano e originando la stagione tafazzista delle scissioni.
Zingaretti, nativo della Federazione romana e soprannominato Saponetta per la sua capacità di sfuggire alle insidie degli scontri diretti, si ritrova due compiti improbi dopo le macerie (in parte cercate e in parte subite) della stagione renziana: ricostruire un Partito solo nominalmente federativo ma in realtà dipendente da Roma e dare una nuova prospettiva al centro-sinistra mentre monta la stagione grillina.
La storia recente la conosciamo: dopo la memorabile figura da tapino in streaming con i grillini dell’allora Segretario Bersani (nonchè candidato in pectore) nella legislatura precedente che diede il via alla stagione renziana, la mai riassorbita secessione dalemiana che porta alla sconfitta elettorale del 2018 e alla preferenza per Salvini da parte dei vittoriosi M5s, si arriva alla scivolata del Papeete e al colpo d’ala di Renzi che prima di scindersi sottrae il Governo a Salvini e lo consegna proprio a Zingaretti che non lo voleva affatto: il Partito nella componente anti renziana aveva puntato ad una usata opposizione in attesa di un probabile errore antieuropeo di M5S e leghisti, come già fu per Berlusconi, e pensava ad elezioni che avrebbero tolto di mezzo la nutrita pattuglia renziana in Parlamento, consumando una vendetta a lungo attesa, anche a costo di una ulteriore pesante sconfitta elettorale.
Visto da fuori pare incredibile puntare, sia pure pro tempore, alla propria marginalizzazione dalla scena politica pur di far fuori un avversario interno, ma questa è la logica di tutti i Partiti di Sinistra del mondo, socialdemocrazie comprese, perché figli di una matrice oppositiva primitiva; così Zingaretti si trova a governare con quelli che lui stesso considera già suoi alleati naturali (chi più oppositivo al sistema dei M5S?) ma ancora ben lontani da una qualche soluzione federativa che il Segretario immaginava potesse nascere a valle delle elezioni.
Invece lo spariglio renziano lo costringe ad anticipare controvoglia i suoi piani di riunire la Sinistra sotto un’unica bandiera, recuperando nel mentre i dalemisti, e gli regala pure la pillola avvelenata di Conte, ovvero un tale uscito da un Nulla politico ma figlio di quel retroterra del Governo Ombra di osservanza romana di cui abbiamo parlato all’inizio, che ruba la scena ponendosi lui come soggetto aggregatore e quindi scavalcando, in modo autolesionista per Zingaretti, proprio il Partito Democratico, soggetto passivo dell’ultimo anno.
Infine le dimissioni delle ministre renziane fanno saltare Conte e rilasciano per la seconda volta l’immobile Zingaretti a risolvere il problema senza poter andare alle agognate urne purificatrici; non solo l’immobilismo irresoluto del teorico dell’opposizione attendista lo consegna alle consultazioni come la vittima sacrificale del Governo Draghi mentre proprio i suoi rumoreggiano perché costretti da una situazione che non hanno mai governato negli ultimi sette anni a dover digerire il sostegno ad un Governo assieme alla Lega rinnovata da Giorgetti, ma con Salvini ancora in facciata.
Attesa, fuga dalle responsabilità contingenti di Partito e governative, irresolutezza nelle svolte storiche condensano nel Segretario del PD una storia che parte dal dopoguerra e che, forse oggi, decreta la parola fine su quel modo di fare politica giocando sull’equivoco di concetti e slogan che ipotizzano svolte epocali e che mostrano incapacità di gestione sia negli affari correnti (il Recovery Fund made in Conte-Gualtieri su tutto) che nella comprensione dell’evoluzione italiana, segnata ora più che mai dai ritardi storici del Sud cui porre mano e che con il Governo a sua completa disposizione Zingaretti ha mostrato di saper risolvere solo alla maniera classica della peggior DC, coi soldi a pioggia senza direzione alcuna.
L’arrivo palingenetico di Draghi fa scendere il sipario su di lui e sui suoi mentori perché se il PD, come la Lega, vuol sopravvivere dovrà riscrivere le proprie regole guardando al mondo com’è e non a quello che vorrebbe, come fatto sinora.