di Francesco Floris
Tutto da rifare per la Procura di Milano. O quasi. Il processo per la maxi tangente nigeriana, che Eni e Shell avrebbero versato per lo sfruttamento del campo petrolifero Opl 245, volge al termine. A metà marzo i giudici entreranno in Camera di Consiglio per decidere il destino del procedimento noto come “Scaroni e altri”. È il filone principale, dove sono imputati l’attuale amministratore delegato del gruppo petrolifero italiano, Claudio Descalzi, e il suo predecessore Paolo Scaroni.
Ma ce n’è un altro di procedimento connesso, che ha strette relazioni con quello principale. È il filone che riguarda Aliyu Abubakar. Si tratta del businessman che secondo l’impianto dell’accusa avrebbe cambiato in moneta contante 500 milioni di dollari ricevuti da Londra sui conti di varie società interne alla sua galassia imprenditoriale in Nigeria. Soldi poi usati per corrompere i funzionari locali dopo averli prelevati in contanti, per farne perdere le tracce, attraverso i “Buerau des Changes” (i cambiavalute). Di fatto l’ultimo anello della catena corruttiva, l’intermediario finale di quasi mezzo miliardo di euro. Abubakar si è visto anche affibbiare il soprannome di “Mister Corruption” dall’anticorruzione nigeriana e dal Fbi americana, durante le analisi finanziarie sul denaro ricevuto e gestito dall’uomo. Fin qui i fatti
La posizione di Aliyu nel maxi processo Eni-Nigeria è stata stralciata nel 2017 senza mai chiarire fino in fondo le motivazioni. Probabilmente un errore di registrazione del fascicolo. Tanto che il 20 marzo 2019 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro interrogano il businessman nigeriano in qualità di “testimone imputato in procedimento connesso”. Si arriva a gennaio 2021 per il processo a suo carico. Ma qui, colpo di scena. È il suo difensore d’ufficio, l’avvocato Davide Pozzi che si è ritrovato il fascicolo per le mani per puro caso visto che l’uomo non ha mai nominato un legale di fiducia in Italia, a estrarre il coniglio dal cilindro. Diversi atti non sono mai stati tradotti in lingua inglese. In alcuni casi nemmeno notificati, o notificati con modalità quanto meno dubbie attraverso un funzionario della Economic and Financial Crimes Commission (Efcc) nigeriana di cui è noto solo il nome ma non il cognome, almeno dagli atti depositati.
Il decreto che dispone il giudizio di Abubakar non è stato tradotto in lingua nota all’imputato ha stabilito la giudice Carla Galli il 4 febbraio 2021 dichiarando la nullità dell’udienza preliminare. Questo è accaduto pur a fronte della certezza che Abubakar non conoscesse la lingua italiana. Anche l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare non è stato tradotto in inglese o comunque in una lingua nota all’imputato. Così come è avvenuto per la richiesta di rinvio a giudizio. Un’eventualità, ha spiegato la giudice della settima sezione penale richiamandosi alla giurisprudenza di Cassazione, che è concessa solo nei casi in cui l’imputato sia irreperibile o latitante. Non è il caso di Aliyu Abubakar. Che pur libero in patria non è latitante o irreperibile, come dimostra la testimonianza nel processo principale. Una “svista” della Procura di Milano che costa cara. Almeno un anno di tempo. “Mister Corruption” ringrazia da lontano.