Giorgia Meloni capolista alle Europee? La tentazione in Fratelli d’Italia c’è. E a cascata la corsa alla gara di popolarità tra i leader emerge in tutti i partiti. Non è un caso. Il voto del prossimo giugno sarà un grande termometro dei livelli dei consensi nei partiti. E ogni formazione dovrà pesare sia la prospettiva elettorale nel suo complesso che la natura delle compagini che saranno elette a Strasburgo.
Per un leader candidarsi alle Europee significa misurarsi su tre dimensioni, dunque. In primo luogo, la percentuale di voti della formazione. In secondo luogo, il bottino personale di voti che saranno raccolti sotto forma di preferenza. Infine, la capacità di fare valere le scale di priorità per decidere chi dovrà essere eletto. Meloni lancia la corsa. Dietro di lei, è ormai assodato che sarà sulla lista anche il nome di Matteo Salvini, capolista in ogni circoscrizione per la Lega. Nei cinque distretti elettorali, valutano di correre anche Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, e Antonio Tajani, segretario di Forza Italia e Ministro degli Esteri.
Battaglia per le preferenze
Si preannuncia una gara di popolarità interna alla disfida tra i partiti. Con effetti crescenti nella polarizzazione della campagna e della lottizzazione dei gruppi elettorali. L’obiettivo? Puntare sull’effetto-traino del nome presente sulla scheda per attrarre l’elettorato. Anche se – paradossalmente – gli elettori saranno più portati a votare per l’Europarlamento politici che non hanno alcuna intenzione di spostarsi da Roma all’Alsazia. Scegliere l’Europa, in caso di elezione, vorrebbe dire rinunciare alla carica romana. Che per la Schlein equivale a un seggio alla Camera e una presenza in Parlamento ove contendere a Giuseppe Conte la leadership dell’opposizione. Per Salvini e Tajani le cariche di vicepremier e ministro. Per Meloni, infine, addirittura Palazzo Chigi. Ipotesi, ovviamente, lunare.
Ma tant’è: la politica è personalizzazione. Meloni spera nella presenza del suo nome come candidata per spingere l’elettorato di destra a sostenerla. E, tramite il gioco degli apparentamenti, spingere i candidati a lei più vicini ai vertici di un gruppo parlamentare europeo destinato a contare almeno una ventina di membri. Il sogno è spingere Fdi sopra il 30%. E avvicinare, se non addirittura sorpassare, i 2,3 milioni di preferenze personali raccolte da Salvini nel boom (34,8%) del 2019. Più difficile puntare i 2,7 milioni di voti raccolti da Silvio Berlusconi col Popolo delle Libertà nel 2009. Il Pdl col 35,18% nel 2009 e la Lega dieci anni dopo toccarono i propri massimi storici proprio alle Europee. Lo stesso fece anche il Pd di Matteo Renzi, che sfondò il muro del 40% (40,8%) nel 2014. Allora, però, il premier in carica da pochi mesi non appose il suo nome sulla scheda.
Rischio personalizzazione alle Europee
Meloni si prepara a celebrare come i suoi due predecessori di centrodestra una nuova avanzata dopo il 26% delle politiche? Possibile, anche se il precedente storico di due leader della destra arrivati all’apogeo con le Europee e il boom di preferenze forse imporrebbe un profilo basso. Ma a cascata la sua discesa in campo spingerà quella di altri leader intenti a una partita personale per le preferenze che avrà l’effetto di trasporre in Europa gruppi parlamentari funzionali alle dialettiche dei leader. Che per questa sfida incrociata potranno però aver l’effetto di indebolire la presa politica delle formazioni sull’Europa. Mettendo in campo una campagna elettorale centrata più sulle differenze personali che sull’idea di Europa immaginata.
In passato figure come lo stesso Tajani, il compianto David Sassoli, il segretario d’Azione e ex Pd Carlo Calenda e l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia hanno promosso cacce alle preferenze a tutto campo svincolati dalla sola immagine del leader. Costruendosi carriere nei palazzi comunitari o ribalte di tutto rispetto. Ora molti eletti rischiano di emergere all’ombra dei leader. Con l’effetto di diluire la rappresentanza dei partiti in nome del braccio di ferro e della gara di popolarità tra leader su cui i partiti sono ormai appiattiti.