Perché leggere questo articolo? Le mosse pragmatiche di Meloni non devono stupire. Il governo, in Europa, segue la linea del realismo. Come fatto da tutti i suoi predecessori…
Giorgia Meloni e Olaf Scholz hanno firmato a Berlino il Partenariato strategico tra Italia e Germania. E, ai margini della discussione, i due leader hanno parlato attivamente dell’imminente riforma del Patto di Stabilità. La quadra è chiara: Meloni concederà il via libera alla riforma del Mes alla Germania, Scholz farà pressione per far sì che l’ala più rigorista del suo esecutivo a guida socialdemocratica, incarnata dai Liberali (Fdp) del falco delle Finanze Christian Lindner, non condizioni la ricerca di un accordo.
Meloni come i suoi predecessori
L’obiettivo? Chiudere un accordo-quadro entro il prossimo summit dei ministri dell’Economia e delle Finanze convocato per l’8 dicembre. Un percorso che non deve stupire: Meloni pragmatica e aperta allo scambio in Europa? Era nell’ordine delle cose. Nessun “tradimento”, per chi dalla destra più radicale si aspettava una continuità con posizioni più dure espresse dalla premier ai tempi dell’opposizione. Alle fiamme della retorica Meloni ha dovuto sostituire la flemma, spesso noiosa, del compromesso. Giusto chi credeva alla Meloni “rivoluzionaria” o, sul fronte opposto, al governo “sfascista” prima ancora che post-fascista può essere stupito.
La motivazione è semplice. Il governo impone scelte difficili e, possiamo sottolinearlo, non necessariamente elettoralistiche. Specie sulla politica estera che è determinante primaria di quella interna, per quanto molto spesso si miri a far credere il contrario. Meloni, come prima di lei Mario Draghi, Giuseppe Conte e Matteo Renzi, porta con sé forze, limiti e vincoli del sistema-Paese Italia. Non è un caso che sul Mes e sulla riforma del Patto di Stabilità sia Meloni a portare a compimento svolte avviate rispettivamente da Conte, firmatario della riforma nel 2021, e da Draghi, tra i primi a buttare l’amo sul cambio dei Trattati post-Covid. Due percorsi immaginati già nel suo governo dallo stesso Renzi. La realtà di fatto è che i Paesi hanno interessi di lungo periodo sostanzialmente stabili nella loro strutturazione. E che prima del colore ideologico di chi occupa posizioni rilevanti molto spesso sono questi interessi a prevalere.
Il nodo della trattativa non è ideologico
Meloni di questo si è senz’altro accorta. Tanto che, piuttosto, la critica più appuntita da farle potrebbe essere quella di un’eccessiva tendenza alla ricerca del compromesso. Quando la conservatrice Meloni, romana dalla dialettica affilata, stringe la mano al progressista Scholz, giuslavorista amburghese cresciuto temprato dal Mare del Nord e da vice di Angela Merkel, non sono le ideologie a parlare. Ma sono, piuttosto, gli interessi di Italia e Germania. In questa fase concordi su un punto: le regole europee devono cambiare, possibilmente in meglio.
Il nodo era tutto sulle regole del debito. Scholz, inizialmente, ha ritenuto che l’obiettivo originario della Commissione – garantire una riduzione graduale del debito salvando gli spazi per gli investimenti green e digitali – fosse troppo poco ambizioso, mentre i paesi ad alto deficit e alto debito come Francia, Italia e Belgio lo hanno trovato troppo oneroso.
Sui compromessi gli Stati sono sovrani
Il compromesso si è gradualmente trovato. Sul fronte del debito, nota Politico.eu, le proposte lanciate dal premier spagnolo Pedro Sanchez “mirano a raggiungere una riduzione media del debito pari all’1% del PIL all’anno, ma su un orizzonte temporale più lungo, diciamo 14 o 17 anni”. In compenso, la Germania “ora chiede ai paesi membri di raggiungere effettivamente un deficit fiscale pari all’1% del Pil limitando la crescita della spesa pubblica dei paesi (al di sotto del potenziale di crescita della loro economia)”. Una quadra definitiva si troverà con orizzonti temporali leggermente più brevi e soglie di deficit più alte. Ma l’accordo sarà mediato da una leader conservatrice (Meloni), due socialdemocratici (Scholz e Sanchez) e un centrista come Emmanuel Macron. Tutti – legittimamente – rappresentanti dei loro Paesi prima che della loro ideologia in questa partita.
Molto spesso in Italia si vive una riduzione ad personam della dialettica politica nazionale (e non solo). Certo, il fattore umano conta. Lo standing di figure come Mario Draghi nel dibattito europeo, tra il 2021 e il 2022, è stato universalmente riconosciuto. Ma all’atto pratico l’incidenza di un esecutivo si può misurare nella capacità di strappare convergenze e compromessi. Conte era poco più di uno sconosciuto nel 2018 e una certa stampa avversa al governo M5S-Lega presagiva la sua caduta sulla scia del negoziato con Bruxelles sulla manovra. Contro ogni aspettativa, il premier di allora portò all’incasso la Legge di Bilancio. Perché prima del nome dell’inquilino di Palazzo Chigi, conta la struttura del Paese. E questo vale anche per Meloni.
Meloni e la dialettica ad personam
Di contro vi è che la personalizzazione del dibattito spesso si traduce anche nell’annuncite nelle campagne elettorali. La politica è l’arte del compromesso, e i leader di oggi che sognano di essere i capi di governo di domani devono, su questo fronte, ricordarsi della necessità di evitare di alzare, soprattutto sul fronte estero, eccessivamente le aspettative. Salvo dover prima o poi sostenere palesi ritirate. I dubbi su Meloni, in quest’ottica, non nascevano solo da pregiudizi dei suoi avversari ma anche di un trend di dichiarazioni dure sull’Europa consolidate e sostanziali. Ma i palazzi di Roma hanno normalizzato chiunque in passato, e anche per Meloni, come per i suoi predecessori, la realtà parla di un governo normale, con una routine quasi meccanica e noiosa, specie in Europa. Nulla di nuovo sotto il sole.