Soprattutto nel dibattito online lo scontro si accende quando si parla di cancel culture e politicamente corretto. Alcuni temi sono sempre più sensibili, ma davvero non si può più dire niente? Su True-News.it un confronto tra opinionisti e intellettuali per capire se davvero, in questo periodo storico, non si possa dire più niente. Dopo Giulio Meotti, Lorenzo Gasparrini, Jennifer Guerra e Andrea De Benedetti ci siamo confrontati con Federica D’Alessio, giornalista e copywriter.
Quali sono i limiti del dibattito sulla cancel culture e la libertà di espressione all’interno dei femminismi e dei movimenti di rivendicazione? Ci sono delle posizioni difficili da scardinare e che ostacolano la riflessione?
Credo che il femminismo risenta del generale degradarsi della dimensione politica. Decenni fa, il movimento delle donne era trascinato da un bisogno impellente per ognuna: rompere le pareti di casa e uscire nel mondo, protagoniste della propria vita e mai più figure di servizio all’uomo. Questo bisogno motivava un agire politico per il cambiamento. Oggi qual è il bisogno che motiva noi donne? Non lo sappiamo tanto bene. La dimensione propagandistica ha avuto il sopravvento sull’esigenza di liberazione concreta: dalla moltitudine in movimento siamo passati a una galassia frammentata di gruppi settari. Per ogni tema, dalla prostituzione alla GPA, dalla maternità fino alle visioni sull’identità di genere, se l’approccio è settario la regola è una: “chi non è con me è contro di me”.
Che ruolo ha la “teoria del gender” in questo discorso? E – in breve – che cos’è?
Quando il femminismo ha fatto ingresso nell’accademia, non l’ha cambiata ma ne è stato cambiato. Ha assunto i tratti di una teoria critica ispirata a un postmodernismo di vulgata, secondo cui ogni definizione del reale è un dispositivo del potere che la genera. La gender identity theory individua l’oppressione in una dimensione simbolico-linguistica normativa: il “binarismo di genere”, il “genere” o addirittura il “sesso biologico”, considerato un costrutto culturale, rigettabile attraverso un’autodefinizione identitaria. Come teoria, non riguarda le vite delle persone transessuali. Pretende di spiegare e inquadrare l’identità di chiunque.
Se infatti è il “genere” che opprime, allora la soluzione è un escapismo individuale: non più liberazione di genere, ma dal genere. Il fatto che tuttora esista un sesso materialmente servo di un sesso materialmente padrone, in questa visione scompare.
Spesso quando si parla di politicamente corretto e di femminismi si tende ad avere una prospettiva radicale. Ci sono degli ostacoli in questo modo di agire secondo te? Possono essere delle strategie vincenti per mirare all’estensione dei diritti?
La radicalità degli scontri settari è solo apparente. In realtà non c’è molto di radicale in degradazioni del discorso che non aiutano le donne a farsi soggetto politico. Se la politica si svuota, rimane solo la ricerca di egemonia nella rappresentazione. La lingua si fa codice: pur attribuendole un’importanza spropositata, in realtà è ridotta a strumento di simbologia identitaria. Ma quali lotte concrete portano avanti oggi le donne? Esiste un movimento di liberazione, e da cosa dobbiamo liberarci? Solo dalle gabbie del genere e del binarismo di genere, o da situazioni di sottomissione che perdurano, tali per cui siamo ancora trattate come servitù dell’uomo, a disposizione dei suoi desideri e bisogni?
Quindi è vero che “non si può più dire niente”?
Di femminismo non si è mai parlato tanto. La propaganda femminista è sulla cresta dell’onda, i divi ne fanno segno di virtù. Ma questo non è né dialogo, né conflitto. Anche il “patriarcato” nella reiterazione propagandistica diventa significante astratto, o il solito identikit del “maschio bianco etero cis”. I regimi patriarcali sono di ogni colore e milioni di donne li stanno sfidando in questo momento: dalle femministe russe alle indiane, dalle polacche alle afgane. Anche in Italia c’è bisogno di ridare fiato al movimento delle donne, non solo al discorso femminista, tanto più se è solo metadiscorso sul linguaggio o sull’identità. Serve un nuovo percorso di liberazione di genere, ovvero collettivo e delle donne. In cui possiamo dirci tutto cominciando dalle nostre vite, e scoprirci diverse ma unite, dai bisogni, dai sogni e dai conflitti che agiamo.