Perché potrebbe interessarti? È scoppiata la polemica dopo una nota del Movimento 5 Stelle che aveva rivendicato lo stop all’aumento delle indennità dei deputati. Una misura che viene confermata dal 2006, senza che nessuno provi un blitz. La furia del deputato renziano, Roberto Giachetti, ha fatto il giro di social e giornali. Ma dai vitalizi al finanziamento pubblico ai partiti, altre volte i pentastellati hanno messo il cappello su battaglie altrui.
Basta un po’ di opposizione e nel Movimento 5 Stelle si risvegliano gli ardori anti-casta, con tutto il fuoco di rivendicare le battaglie contro i costi della politica. Solo che, a conti fatti, sono solo operazioni di propaganda dietro cui non si celano fatti concreti. Svelando il maldestro tentativo di appropriarsi di iniziative altrui. La polemica delle ultime ore riguarda il rinnovo dello stop all’aumento degli stipendi dei parlamentari deliberato dal collegio dei questori della Camera.
La battaglia sull’aumento che non avviene dal 2006
Si è trattata della conferma di una decisione assunta per la prima volta nel 2006, quello di evitare l’incremento delle indennità parlamentari (che sono legati agli stipendi dei primi magistrati della Corte di Cassazione): da allora si è trasformata in una misura di routine. Negli ultimi quindici anni nessun partito l’ha messa in discussione.
Solo che i pentastellati, attraverso il loro deputato-questore, Filippo Scerra, (gli altri due sono Paolo Trancassini di Fratelli d’Italia e Alessandro Manuel Benvenuto della Lega), hanno rivendicato di aver scongiurare l’aumento degli stipendi dei deputati fino al 2025. Da qui l’ira, che ha conquistato anche i social, di Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, che nell’emiciclo di Montecitorio ha urlato ai quattro venti il suo «miserabili», rivolto ai pentastellati. Un ritorno alla demagogia, insomma, per il M5S di Giuseppe Conte.
Intestarsi le battaglie degli altri
Eppure la casistica del passato è ricca di iniziative dal retrogusto demagogico che alla fine non hanno prodotto miracolistici risparmi della spesa pubblica. La vicenda del bilancio interno della Camera è significativa: nonostante la riduzione del numero degli eletti, da 630 a 400, la spesa complessiva per mantenere le attività del Palazzo aumenterà di 2 milioni e 400mila euro per il 2023. Una dimostrazione che per incidere sui costi, bisogna usare il bisturi della contabilità e dalla razionalità, non la sciabola del populismo.
Certo, sul conto ci saranno meno esborsi per le indennità dei parlamentari; ma di contro si registrerà un incremento della spesa per le pensioni degli ex deputati e di tanti altri capitoli del bilancio. E qui entra in gioco quello che per anni è stato un grande motore della propaganda: la battaglia contro i vitalizi, che è stata portata avanti nella scorsa legislatura dai 5 Stelle, principalmente durante la leadership di Luigi Di Maio.
Il boomerang dei costi della politica
Nello specifico è passata la narrazione che, grazie all’arrivo dei grillini in Parlamento, i vitalizi – eredità di un beneficio da Prima Repubblica – fossero stati cancellati. In realtà si è trattato solo di un ricalcolo degli assegni, con alcune decurtazioni. Che peraltro si sta rivelando un boomerang: una serie di ricorsi alla Camera e al Senato stanno facendo registrare un passo indietro. Tanto che i beneficiari stanno pian piano riavendo parte delle somme che erano state colpite dalla riforma. Insomma, niente di rivoluzionario rispetto a come era stato raccontato, anzi un bel pasticcio come avevano messo in guardia i più avveduti.
Ma soprattutto, l’aspetto più importante è che i vitalizi non esistono più già dal 2012, sotto la spinta dell’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini. In quegli anni il Movimento 5 Stelle ancora non aveva messo piede in Parlamento, visto che lo ha fatto solo con le elezioni dell’anno successivo. Così chi ha maturato i requisiti del vitalizio prima del 2012, continua a percepire il famigerato assegno, mentre chi ha terminato il mandato nell’ultimo decennio avrà diritto a una forma di pensione che incasserà al compimento dei 65 o 60 anni, in base alle legislature terminate. In tutto questo i pentastellati c’entrano come il cavolo a merenda, perché la riforma è stata attuata da altri.
Cavalli di battaglia anti-casta
La storia è simile, per esempio, su altri cavalli di battaglia anti-casta; come il finanziamento pubblico ai partiti che è stato cancellato dal governo presieduto da Enrico Letta nel 2013, quando è stato introdotto il meccanismo del due per mille. E in questo caso il risparmio è tangibile. Dai precedenti 90 milioni di euro sborsati dallo stato ogni anno per finanziare le forze politiche; si è passato agli attuali 18 milioni e mezzo di euro presi dalle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti che, volontariamente, indicano a quale partito destinare il loro due per mille. Un’altra partita in cui i 5 Stelle c’entrano solo nell’immaginario collettivo. Perché la riforma vera è stata fatta da altri.