Perché potrebbe interessarti questo articolo? L’apertura a un’ampia riforma della Costituzione, che modifichi il sistema degli enti locali, a partire dalle Regioni. Dal Pd, con il deputato Roberto Morassut, arriva la disponibilità al dialogo a rivedere le Istituzioni italiane. L’intervento, secondo la proposta del parlamentare dem, dovrebbe avvicinare risultare efficace anche per contrastare la disaffezione dei cittadini dalla politica.
Una riforma della Costituzione, riducendo le Regioni, valorizzando di nuovo le Province. E mettendo anche mano al sistema parlamentare. Roberto Morassut, deputato del Pd, indica la strada da seguire per affrontare il problema della scarsa partecipazione elettorale, con lo scopo di riavvicinare le Istituzioni ai cittadini. «Oggi le Regioni sono percepite distanti», dice e bacchetta il suo partito. «Errato intervenire sulle Province come è stato fatto». Così invoca una costituente, a patto che la «destra non vada avanti a colpi di mano».
Come si può motivare il tracollo dell’affluenza?
I motivi sono diversi. C’è un distacco dall’esercizio del voto, che non è più semplice astensionismo e riguarda principalmente le giovani generazioni, che non trovano una corrispondenza nella politica e nelle Istituzioni. C’è poi un tema specifico, che riguarda la percezione dell’istituzione Regione da parte degli elettori. Credo che i cittadini non la vedono come un soggetto che incide sulla vita quotidiana.
E cosa bisogna fare per modificare questa percezione?
Il regionalismo italiano va profondamente modificato. Dalla loro istituzione, le Regioni hanno avuto meriti importanti per il superamento dello Stato centralistico, ancora di stampo napoleonico, completando il processo risorgimentale. Ha portato rappresentanza del territorio, ma anche servizi.
Detta così sembra un fattore positivo…
Il punto è che dal Duemila in poi, anche a causa della scomposizione dei partiti, sono diventate dei luoghi della distribuzione della spesa pubblica. Così oggi sono troppe e distribuite male. Inoltre, non si capisce cosa devono fare, quale sia la loro funzione. Senza dimenticare che talvolta creano confusione con i Comuni, con cui entrano in conflitto di competenze.
In mezzo ci sarebbero le Province, che oggi sembrano al centro di una possibile rivalutazione.
Qui sono critico verso il mio partito. C’è stato l’errore dello scardinamento delle Province, che hanno nella catena di distribuzione degli enti locali. Se si tocca un anello, si incide sull’intero meccanismo. L’intervento compiuto sulle Province ha allontanato ulteriormente le Regioni dalla visione dei cittadini, rendendole ancora più astratte.
In sintesi: ne usciamo reintroducendo le elezioni per le Province e dicendo addio Regioni?
Bisogna ridurre il numero di Regioni. Questo potrebbe diminuire l’eccesso di centrali di spesa.
Ma di conseguenza si aumenterebbe la dimensione delle Regioni, allontanandole ulteriormente dai cittadini?
Siamo l’unico Paese con 20 Regioni. In Francia, Spagna e Germania non ci sono più di dodici 13-14 Regioni. E spesso in Italia c’è uno squilibrio evidente che vanno dai 300mila abitanti del Molise ai 9 milioni della Lombardia. Il centrosud è poi eccessivamente frammentato e questo complica l’obiettivo di rendersi autonomo nello sviluppo. È chiaro che una riforma delle Regioni comporta una contestuale riflessione sulle Province, che devono tornare elettive, prevedendo un accorpamento ed evitare una proliferazione. La certezza è che oggi non sono rappresentative dei territori. Non si capisce la loro funzione.
Propone dunque un’ampia riforma?
Certo, nel discorso rientrano le metropoli, come Milano, Roma e Napoli, a cui vanno attribuiti poteri di rango regionale per avere il diritto di svolgere la loro funzione di respiro internazionale. Occorre una riforma del genere, non l’autonomia differenziata proposta dalla Lega.
Quindi per riavvicinare i cittadini è sufficiente riscrivere le norme sugli enti locali?
Serve una riorganizzazione istituzionale complessiva, che resta legata alla vita dei partiti che governano le Istituzioni. Penso anche alla legge elettorale, che crea ulteriormente una distanza tra i cittadini e la partecipazione. Non sono nemmeno chiuso a un discorso di modifica del sistema parlamentare, purché non si risolva in due battute.
Invoca una fase costituente?
So che è un’espressione un po’ abusata, che viene inserita dappertutto, ma è necessaria. La destra non deve pretendere tuttavia di agire con dei colpi di mano. La fase costituente deve coinvolgere le opposizioni e richiede dei fisiologici tempi di discussione. Sappiamo che la Costituzione va rivista. Già ci sono stati vari tentativi che però si sono rivelati fallimentari.
Tornando al tema dell’affluenza, alle Europee si può andare al di sotto delle soglie viste per le ultime Regionali?
Non riesco a fornire numeri. Ma di sicuro già queste sono percentuali allarmanti. Va detto che non sono un caso solo italiano. C’è una crisi di partecipazione anche in altri Paesi.
L’Italia è però storicamente un Paese con una maggiore partecipazione elettorale.
Ci stiamo allineando ad altri Paesi. E qui entra in ballo il tema più ampio dell’impatto delle nuove tecnologie sulla democrazia. La questione è generale, in Europa. Ma esiste un’altra oggettiva questione, specifica italiana, sul meccanismo istituzionale.