Perché questo articolo potrebbe interessarti? Giorgia Meloni preme per il premierato: è questa la formula scelta nella riforma costituzionale che a breve dovrebbe essere presentata ufficialmente in consiglio dei ministri. I futuri premier potrebbero avere più poteri e, soprattutto, essere scelti direttamente dagli elettori. Un cambio di passo radicale rispetto all’attuale architettura istituzionale, nata dalla volontà dei padri costituenti di evitare proprio la costituzione di esecutivi forti. Ed è per questo forse che il cammino della riforma nasce già in salita. Come confermano a True News fonti dell’alleanza di Sinistra e Verdi, pronta a dare battaglia
Dal presidenzialismo al premierato: la coalizione di centrodestra al governo sembra aver trovato una sorta di compromesso tra la formula immaginata dal presidente del consiglio Giorgia Meloni in campagna elettorale, ossia l’elezione diretta del capo dello Stato il quale avrebbe avuto anche funzioni di capo del potere esecutivo, e una formula invece volta a non stravolgere del tutto l’attuale impianto costituzionale.
La riforma di cui da alcune ore circolano le prime bozze, prevede infatti il mantenimento dell’elezione parlamentare del presidente della Repubblica e il ruolo attualmente attribuito al capo dello Stato dalla costituzione. A cambiare radicalmente è la concezione del presidente del consiglio, per il quale invece è prevista l’elezione diretta. Il filo comune tra le intenzioni originarie di Giorgia Meloni e la riforma in calce, è rappresentato proprio dall’elezione diretta di chi andrà a detenere il ruolo di capo dell’esecutivo e il rafforzamento della sua posizione e del suo ruolo. Da qui dunque il termine premierato adottato a proposito della costituenda riforma costituzionale.
Riuscirà l’attuale presidente del consiglio a portare in porto la riforma? “Questa riforma è cucita su misura per Giorgia Meloni – riferiscono fonti dell’alleanza di Sinistra e Verdi su TrueNews – non la lasceremo passare e lavoreremo con tutte le opposizioni”.
La repubblica parlamentare voluta dai padri costituenti
Con gli occhi di chi è cresciuto nel XXI secolo, l’attuale impianto costituzionale potrebbe apparire quasi anacronistico. Il presidente del consiglio ha una mera funzione di coordinamento dell’indirizzo politico del governo. I ministri del suo esecutivo sono da lui solamente indicati, la nomina spetta unicamente al capo dello Stato. Inoltre, la sua permanenza a Palazzo Chigi è legata alla fiducia di entrambe le camere. Dunque, deputati e senatori hanno il potere di staccare la spina al governo in qualsiasi momento.
Un’architettura istituzionale del genere è stata vista, con il passare degli anni, come causa e sintomo di instabilità. I numeri del resto dicono come, in meno di 80 anni di Repubblica, l’Italia ha sfornato qualcosa come 68 governi. Ma questa instabilità, agli occhi invece dei padri costituenti, è apparsa addirittura necessaria. L’intento di chi, tra il 1946 e il 1948, ha partecipato ai lavori della costituente è stato proprio quello di evitare un accentramento di poteri sul capo dell’esecutivo ed evitare, tra le altre cose, l’affermarsi di figure politiche forti.
Il motivo di questa scelta è da ricercare nella necessità, dell’Italia di allora, di affrancarsi dal periodo fascista. A un sistema autoritario cioè occorreva, secondo i padri della costituzione, alternare un sistema parlamentare del tutto agli antipodi. Con i presidenti del consiglio visti come meri coordinatori dell’attività di governo e come attori ancorati alle scelte del parlamento. A spiegare la ratio di questa scelta è stato, in un’intervista rilasciata negli anni ’90, Indro Montanelli: “La Germania, nel momento in cui ha potuto redigere una nuova costituzione – si legge nelle dichiarazioni del giornalista riferite a suo tempo ad Alain Elkann – ha attribuito la colpa della scalata del nazismo all’instabilità imperante durante la Repubblica di Weimar, simbolo dell’impotenza del potere esecutivo. E ha quindi scelto la via di un cancellierato forte. L’Italia invece, in risposta al fascismo, ha preferito ricreare le stesse condizioni di Weimar”.
Il cammino mai ultimato verso una maggiore stabilità
Nel corso degli anni però, la politica italiana si è scontrata con un’altra esigenza percepita via via come sempre più importante: quella di avere una maggiore stabilità. Tra gli anni ’70 e ’80, in un’Italia scossa dalla stagione del terrorismo, l’idea di avere dei capi di governo in grado di prendere delle chiare scelte politiche e di dettare una precisa linea ha iniziato a stuzzicare la vena riformista di diversi leader politici. A partire da Bettino Craxi, segretario socialista e non a caso definito “decisionista” in riferimento alla propria attività di governo. Il suo primo esecutivo è infatti durato tre anni, dal 1983 al 1986, durante i quali il ruolo del presidente del consiglio è stato molto più attivo rispetto ai governi precedenti.
Ma veri tentativi di riforma sono arrivati soltanto sulle ceneri della Prima Repubblica. Il collasso, sotto i colpi di tangentopoli, dei partiti tradizionali che fino a quel momento avevano guidato l’Italia repubblicana, ha creato le condizioni anche per ridiscutere l’impianto costituzionale e cercare le condizioni per una maggiore stabilità.
Il primo passo in tal senso si è avuto con l’approvazione nel 1993 di una nuova legge elettorale, in grado di mandare in soffitta il proporzionale a favore di un sistema in gran parte maggioritario. Il “mattarellum”, questo il nome della legge elettorale, ha previsto infatti l’assegnazione del 75% dei seggi con il maggioritario e la restante parte con il proporzionale. L’intento è stato quello di creare le condizioni per una democrazia dell’alternanza, grazie alla formazione di più stabili coalizioni.
Anche l’approvazione delle leggi sull’elezione diretta di sindaci, presidenti delle province e delle regioni è stata vista come anticamera di un futuro premierato. Quasi un “antipasto” dell’elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier. L’alternanza tra centrodestra e centrosinistra a un certo punto è diventata realtà, così come l’emersione di figure politiche più forti e designate dalle proprie coalizioni. Spesso, specialmente nei primi anni della cosiddetta seconda Repubblica, le consultazioni al Quirinale per la nomina del presidente del consiglio hanno rappresentato mere formalità.
Il cammino verso l’introduzione di un nuovo impianto istituzionale si è però interrotto o, quanto meno, non è stato portato a compimento. Formalmente il ruolo del premier è rimasto lo stesso concepito dai padri costituenti e maggioranze sulla carta più stabili non hanno garantito legislature meno turbolente. La frammentazione politica emersa dal 2013 in poi infine, sembra aver fatto tramontare per anni l’idea dell’istituzione di un premierato. I tentativi di riforma portati avanti nel 2005 da Berlusconi e nel 2016 da Matteo Renzi, sono infine caduti nel vuoto dopo due bocciature referendarie.
Cosa prevede il premierato voluto da Giorgia Meloni
La svolta a favore del premierato adesso è quindi inseguita dall’attuale presidente del consiglio. Così come trapelato su diversi organi di stampa, la riforma dovrebbe riguardare almeno tre articoli della costituzione: l’articolo 88, l’articolo 92 e l’articolo 94. Il primo riguarda il potere, attualmente conferito al presidente della Repubblica, di sciogliere le camere. Il secondo invece, il più importante nell’ottica della nuova riforma, il potere attribuito sempre al capo dello Stato di nomina del presidente del consiglio. Infine, il terzo ha a che fare con le mozioni di fiducia e sfiducia al governo da parte delle camere.
Il riformulato articolo 92 toglierebbe al presidente il potere di nomina del capo del governo, attribuendo all’inquilino del Quirinale un mero conferimento dell’incarico al presidente del consiglio eletto. Cioè a colui che, secondo quanto contenuto nella riforma, prenderà più voti in un’elezione diretta con turno unico. Il meccanismo di votazione sarebbe in tal modo identico a quello delle regionali, dove a vincere è colui che ottiene il maggior numero di preferenze e senza ricorrere al ballottaggio. Dovrebbe inoltre essere prevista una legge elettorale che dovrebbe attribuire, alle liste del presidente del consiglio eletto, un premio di maggioranza in grado di portare la coalizione al 55% dei seggi in parlamento.
In poche parole, seguendo i dettami della riforma costituzionale, il capo dello Stato prendendo atto dell’esito della votazione, conferirà l’incarico al premier eletto. Il Quirinale dovrebbe invece conservare il potere di nomina dei ministri, su indicazione del presidente del consiglio eletto e incaricato. Nel caso in cui il capo dell’esecutivo dovesse dimettersi o decadere dall’incarico, il presidente della Repubblica dovrà assegnare un nuovo mandato al premier dimissionario oppure a un parlamentare di una delle liste della maggioranza.
Si tratta di una misura già ribattezzata “anti ribaltone”: in tal modo infatti, non potrebbe emergere alcuna maggioranza di colore diverso da quello di inizio legislatura. Né potrebbero sorgere governi tecnici o di larghe intese. Verrebbe cioè meno la cosiddetta sfiducia costruttiva: il parlamento, se dovesse sfiduciare l’esecutivo, non potrebbe votare la fiducia a un governo composto da una diversa maggioranza. Sempre nella bozza di riforma, è prevista l’eliminazione della nomina dei senatori a vita.
A sinistra si promette battaglia
Il testo è a firma del ministro delle riforme istituzionali, Maria Elisabetta Casellati. Venerdì dovrebbe ottenere il via libera del consiglio dei ministri, per poi iniziare il lungo iter parlamentare. Senza un’approvazione di almeno i due terzi delle camere, si andrà quindi al referendum. Eventualità quest’ultima molto probabile: le opposizioni hanno infatti già bocciato la riforma e promettono barricate.
“Il nostro segretario Fratoianni – ha dichiarato un membro di Sinistra e Verdi a True News – lo ha già detto con chiarezza: non permetteremo alla Meloni di far approvare questa riforma”. La preoccupazione principale raccolta dalle opposizioni riguarda lo svuotamento dei poteri del parlamento: senza la sfiducia costruttiva e con coalizioni vincenti a cui viene attribuita per legge la maggioranza dei seggi, deputati e senatori rischiano di diventare semplici passacarte delle norme portate in aula dai governi di turno.
“Già oggi – hanno sottolineato le fonti di Sinistra e Verdi – il parlamento è svilito da esecutivi che governano a colpi di decreti. Questa riforma sembra cucita addosso alla Meloni e per la Meloni, noi daremo battaglia”. Parole che anticipano un duro scontro in parlamento e che testimoniano, ancora una volta, quanto sia difficile nel nostro sistema politico e istituzionale trovare una sintesi tra le istanze del 1948 e le esigenze di stabilità.