Perché questo articolo potrebbe interessarti? Quanto sta accadendo in Sudan mostra la fragilità del contesto africano e, considerando le possibili conseguenze regionali della crisi di Khartoum, accende il riflettori anche sulle possibilità difficoltà di Roma di attuare il Piano Mattei.
Tornare ad avere una solida politica africana è uno degli obiettivi del Piano Mattei, annunciato dal presidente del consiglio Giorgia Meloni già dal suo insediamento. Non è un caso che il capo dell’esecutivo, in questi primi mesi di governo, più volte si è recato in visita in alcune delle più importanti capitali africane. Di recente, Meloni è stata ad Addis Abeba e anche in questa occasione ha parlato di Piano Mattei.
I recenti fatti capitati in Sudan, potrebbero però avere l’effetto di una sveglia. In primo luogo, perché è evidente come impiantare un piano politico ed economico in Africa vuol dire mettere in conto di avere davanti Paesi fragili politicamente, esposti al rischio di golpe e di episodi destabilizzanti. In Sudan l’Italia non ha molti interessi, ma nella regione circostante sì: basti pensare all’incidenza che il caos sudanese potrebbe avere sul dossier libico, sulla politica dell’Egitto, così come della stessa Etiopia. C’è poi un altro fatto da considerare: le varie crisi africane testimoniano ancora una volta l’importanza di avere una solida influenza nel continente. Influenza che né l’Italia e né l’Europa oggi hanno. In poche parole, alla prova dei fatti, il Piano Mattei rischia di fermarsi davanti all’impatto con la realtà.
Gli interessi italiani nel Corno d’Africa
La regione orientale dell’Africa è molto importante a livello strategico. Si affaccia sul Mar Rosso, da qui risalgono le petroliere dirette verso il canale di Suez e il Mediterraneo. Di fronte c’è la penisola arabica, cuore commerciale del medio oriente. Non è certo un caso se anche l’Italia ha una sua base militare a Gibuti. Un Paese, quest’ultimo, soprannominato la “caserma d’Africa”. Dagli Usa alla Cina, passando per la Francia e altri Paesi europei, in questo piccolo Stato sul Mar Rosso tanti governi hanno deciso di impiantare avamposti militari. Come ulteriore testimonianza della delicatezza internazionale della regione, la Russia è intenzionata a costruire una propria base poco più a nord di Gibuti e, per la precisione, nel porto sudanese di Port Sudan.
Interessi internazionali che sono quindi anche interessi italiani. Se non si vuole rimanere tagliati fuori dal continente, Roma deve evitare di uscire fuori dalla scena in Africa orientale. Ci sono poi interessi specificatamente nazionali. In Egitto il nostro Paese è impegnato con importanti affari di natura energetica e con la fornitura di mezzi militari e armi. In Etiopia alcune nostre imprese hanno costruito la diga della rinascita, una gigantesca opera vanto di Addis Abeba ma epicentro di dispute politiche con Il Cairo per via della gestione delle acque del Nilo. Da non dimenticare poi il discorso immigrazione. In migliaia continuano a partire dall’Eritrea e dal Sudan, molti migranti da qui raggiungono la Libia per poi partire alla volta del nostro Paese.
La scarsa influenza di Roma e dell’Europa
Il golpe, al momento fallito, nel Sudan sta generando violenze. Un brutto guaio per l’intera regione. L’Egitto è coinvolto, sostiene l’esercito regolare di Khartoum contro le forze Rsf del generale Dagalo Hemeti. A sud, l’Etiopia avrebbe provato a sfruttare il caos per risolvere con la forza una disputa territoriale con il Sudan. Il conflitto potrebbe tracimare e coinvolgere il Corno d’Africa. Il fatto politicamente più inquietante è che, almeno per il momento, l’Europa non ha alcuna voce in capitolo. Né ce l’hanno gli Usa o la Gran Bretagna.
Un discorso ovviamente che vale anche per l’Italia. E questo è un discorso da non sottovalutare in prospettiva dell’attuazione di un Piano Mattei. Non avere influenza in una regione africana così importante o comunque averne meno rispetto, ad esempio, alle petromonarchie e alle potenze locali, potrebbe potenzialmente impedire sul nascere ogni velleità di sviluppo dei rapporti commerciali da parte del nostro Paese. Oltre al fatto che senza stabilità i patti stretti con i governi locali hanno valore molto scarno. Il caso libico, con la fine de facto degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi del 2009 dopo l’uccisione del rais, appare in tal senso emblematico.
Cosa è rimasto della presenza italiana nella regione
Al netto della buona volontà italiana quindi di ricucire gli strappi del passato e di ritornare protagonista sulla scena africana, Roma deve fare i conti con la realtà. E mettere in conto che, senza un piano nel lungo periodo e senza l’aiuto di un’organica politica europea, allo stato attuale potrà fare ben poco. Su TrueNews l’analista Francesco Trupia nei mesi scorsi aveva già tracciato una situazione del genere: Mattei, il fondatore dell’Eni a cui si ispira il piano, ha operato in un medio oriente diverso e più stabile rispetto a oggi.
Di recente Giorgia Meloni è stata in Etiopia, tornando a casa dopo aver toccato con mano gioie e dolori dell’attuale presenza italiana nel Paese. Da un lato ha potuto visitare la scuola italiana di Addis Abeba, la più grande al mondo, ancora piena di studenti. Così come ha potuto vantare il ruolo delle imprese di Roma nella costruzione della diga della rinascita. Dall’altro però, oltre agli elementi sopra riportati, di Italia in Etiopia è rimasto molto poco. E la strada da percorrere è tutta in salita. Anche perché la stessa situazione è riscontrabile nei Paesi circostanti: in Eritrea l’influenza italiana si limita alle forme razionaliste del centro storico di Asmara costruito negli anni ’30, ma la locale scuola italiana ha chiuso nel 2020 e la nostra diplomazia è poco presente. In Somalia, dove Roma fino al 1960 ha conservato l’amministrazione fiduciaria, l’Italia incide poco nei delicati processi politici in corso. Il presidente somalo ad Addis Abeba ha incontrato Meloni, ma la strada da tracciare, per l’appunto, è ancora molto lunga e in salita.