Il 2 giugno di 11 anni fa, oltre alla consueta parata delle Festa della Repubblica, a Milano andava in scena un’altra cerimonia, quella d’insediamento della giunta di Giuliano Pisapia. Il 30 maggio 2011, dopo una sfida elettorale tra le più sentite della storia della città, il candidato del “popolo arancione” sconfiggeva la sindaca uscente Letizia Moratti. Una vittoria inaspettata, nella città di Silvio Berlusconi, per il vincitore delle primarie della sinistra, che inizialmente godeva dell’appoggio di Sel ma non del Partito Democratico. A undici anni di distanza, Franco D’Alfonso, ex manager Fininvest e soprattutto coordinatore e organizzatore della Lista Milano Civica per Pisapia Sindaco con cui è stato assessore, ricostruisce cosa resta della “rivoluzione arancione”.
Dottor D’Alfonso, sono passati undici anni da quei giorni del 2011, cosa è rimasto di quella vittoria e del popolo arancione?
È sicuramente rimasta un’amministrazione retta da una maggioranza di sinistra, che senza quella rivoluzione si sarebbe vista nel 3022 come minimino. Il cambio di stagione che ci fu con la “primavera arancione” dura ancora adesso. Perché l’attuale giunta si è affermata sul cambio di maggioranza. Nessuno ormai ricorda, ma all’epoca i giornali si dividevano sull’esito elettorale solo per dire se il vicesindaco l’avrebbe fatto Salvini o De Corato.
Cos’hanno in comune Giuliano Pisapia e Beppe Sala?
Sono due sindaci completamente diversi: il primo è un politico a tutto tondo da sempre, un avvocato penalista intrinsecamente legato alla politica. L’altro invece viene da un’esperienza manageriale quasi programmaticamente lontano dalla politica. Rispecchia quei vecchi cartelli “Qui si lavora, non si fa politica”. È interessante che poi vadano a convergere.
Su cosa?
Il fatto di aver voluto fare il sindaco, che è una professione molto particolare e molto coinvolgente, che costringe a cambiare natura. Questo è l’unico punto comune, evidentemente poi l’interpretazione di come ricoprono la carica di sindaco è molto diversa.
Cosa li allontana?
L’agenda di Giuliano era quella di apertura e di avvicinamento dei cittadini al Comune. Questo era il senso della “primavera”, hanno fatto sentire ai cittadini il riappropriamento delle istituzioni, com’era nella tradizione di Milano. Ricordo che il giorno dell’insediamento, il 2 giugno, aprimmo Palazzo Marino e 20mila persone vennero a visitarlo. Adesso siamo in una stagione completamente diversa. Adesso a Palazzo Marino si entra consegnando il badge, in una struttura più “manageriale”.
Possiamo dire che un sindaco era convintamente di sinistra, mentre l’altro lo è meno?
Dice una cosa sbagliata, ormai cosa sono la “sinistra” e la “destra”? Nel 2011 il fatto che una persona dalla formazione di sinistra, della sinistra riformista, entrava a Palazzo Marino era vista come un altro Barbarossa. Adesso siamo in un’epoca in cui è difficile definire: il Pd è di destra o di sinistra? Un sindaco si può giudicare in base alle cose che realizza, dalle scelte che fa. Siamo nell’alveo di una sinistra riformista, con sfumature meno marcate, che dipendono anche dalle vicende. Non dimentichiamoci che metà del mandato di Sala è coinciso con la pandemia. Il giochino dell’etichetta “di sinistra” funziona poco per un sindaco. Ogni tempo ha la sua figura, all’epoca c’era bisogno di una figura come quella di Giuliano che ha portato 100mila persone in piazza Duomo per la politica. Una cosa mai più vista.
Che tempo politico sta vivendo ora Milano?
E’ un tempo dove occorre cambiare tutto, ed è abbastanza ignoto. Emergono i limiti istituzionali del Comune e della Città metropolitana, che sono ormai evidente a tutti. Cioè l’inadeguatezza del quadro istituzionale è ormai palese. In passato, a questi limiti avevano rimediato le personalità e l’azione politica del sindaco, degli assessori e dei leader politici. Adesso, non c’è più questa spinta politica, l’impostazione è molto più attenta al quadro regolatorio, quindi c’è una certa difficoltà a dare un senso di marcia e di cambiamento di cui c’è necessità. E quindi c’è necessità di una ripresa della politica, che non viene più dalle istituzioni, dal Comune. Ma deve venire da qualche altra parte.
Possiamo dire che entrambi i sindaci siano “riformisti”?
Sì, da questo punto di vista non c’è il minimo dubbio. A Milano tradizionalmente ci sono i sindaci riformisti, il primo è stato Emilio Caldara, prima del fascismo. Se prendiamo l’agenda di Caldara, fece già tutto: energia, trasporti, immigrati e welfare alla sanità. Li affrontò tutti in maniera pragmatica, da socialista riformista. Dall’altro lato ci sono i sindaci funzionari, di quello che una volta si chiamava “il governo della borghesia”. Quelli che ritengono che si debba fare una buona amministrazione, uno di questi è Alberti. L’attuale sindaco è nato come amministratore, ma si trova a fare il mestiere del sindaco riformista. Ha imparato abbastanza in fretta.
Come è stata possibile la vittoria di un sindaco molto riformista, come Pisapia?
Come sempre, in politica i tempi sono tutto. Ci sono delle situazioni che si allineano: nel 2011 la città era matura. C’è stata la capacità di interpretare il momento. Le racconto un aneddoto. Abbiamo capito che avremmo vinto nei primi mesi di campagna, mentre la destra portava avanti la solita narrazione di “zingaropoli” e insicurezza. Invece noi siamo partiti dalla distanza tra istituzioni e periferie. Siamo partiti dal tessuto delle associazioni, quelli che agiscono sul territorio in termini non partitici. Siamo andati al quartiere San Siro con un’associazione e abbiamo iniziato a parlare con Giuliano, che allora era lì per le primarie. Mentre parlava c’erano una settantina di persone dentro un cortile. Piano piano, sono usciti tutti dalle case e alla fine avevamo il cortile pieno e con grande entusiasmo. Una vecchietta ha detto: “Giuliano, è la prima volta da vent’anni che vediamo uno del Comune”. Ecco, lì abbiamo capito quale fosse la chiave: far sentire la centralità del Comune. Come diceva Verdi: “Tornare al passato, sarà un progresso”.
A livello di mandato si è avvertita la differenza?
Si è avvertito un clima diverso sin da subito. Ero assessore da due giorni, avevamo tenuto lo staff precedente a Palazzo Marino. La mia segretaria arriva nel mio ufficio e mi dice: “Sai che qui dentro sei popolarissimo: saluti tutti”. Prima era diverso, c’era un diverso galateo. C’era un problema di distacco. Noi abbiamo cercato di annullarlo, spingendo per la partecipazione.
E’ stata vittoria anche della comunicazione? Con una campagna elettorale sentita, la prima dell’epoca dei social.
C’è stata un’utilizzazione dei nuovi mezzi, ma non pianificata. E’ stata segnata dalle gaffe (le accuse di furto di un pulmino, quella di “Sucami” al posto di Sucate). C’erano molte persone che agivano su Facebook e hanno dato vita a tormentoni. Pensi ai ragazzi del Terzo segreto di Satira, una cosa molto milanese. Anche l’arancione, è nato abbastanza per caso. Veniva dalle rivoluzioni all’Est, lo abbiamo usato in una manifestazione. E poi d’improvviso ci sono stati tipo 10mila ciclisti tutti con i palloncini e con le sciarpe arancioni. E da allora è diventato il nostro simbolo, non pianificato. Poi, nella lettura successiva del tutto, è stato una grande operazione di comunicazione. Lo abbiamo razionalizzato a posteriori.
E’ stata un po’ una scintilla che non si è però tramutata in incendio?
Una scintilla che ha avuto un grande effetto: è stata la prima volta che Berlusconi ha perso. Quindi tante cose sono venute fuori da lì. Poi ha dato vita a un’ esperienza molto importante come amministrazione e ha avuto la sua influenza in in tutta Italia. Ricordo che ci chiamavamo più o meno da tutte le parti e molti sindaci si sono richiamati all’esperienza di Milano. Da lì è partita una stagione dove la sinistra riformista, che sembrava sconfitta da tutte le parti, si è ripresa. Poi condivido che l’onda non è diventata maggioritaria, non è diventata la linea. Pisapia ha voluto restare a Milano e non si è lanciato come leader nazionale.
Per quale motivo secondo lei?
Tenga anche anche contro che i milanesi non sono molto contenti se il sindaco diventa un leader nazionale. Anche a ragione forse, visto che è più importante fare il sindaco di Milano che fare il ministro. Non ha voluto fare il passo, in un momento storico difficile, con la crisi e il governo Monti il clima è cambiato e non siamo stati capaci di rendere questa questa esperienza più grande.
Perché i sindaci di città importanti, che magari lasciano soddisfatti i cittadini al termine del mandato, non riescono ad affermarsi in politica nazionale?
A Milano in particolare, tutti i grandi sindaci non sono mai riusciti a fare il salto di qualità. Perché comunque c’è una vecchia tradizione: Milano è vista in maniera ostile dalla politica romana. Non c’è entusiasmo verso Milano dai tempi del Risorgimento. I milanesi stanno per i fatti loro, delegano la politica agli altri. E’ la stessa cosa che ha fatto la borghesia cittadina durante il fascismo. Politici milanesi che sono passati dalla struttura locale a quella nazionale, non c’è ne sono. Solo Craxi, direi. E forse, in misura minore, Salvini, che infatti è rimasto vincolato a una dimensione politica locale. La sinistra governa questa grande città da oltre 10 anni, morire che sia stato anche solo un sottosegretario a Roma che viene da Milano, figurarsi un ministro. Non li fanno contare, e sotto deve esserci qualcosa, non è solo il destino cinico e baro.
Per concludere, l’esperienza di Pisapia può essere un po’ un monito contro il governo giallorosso? Ovvero, la dimostrazione che quando la sinistra fa la sinistra, ottiene risultati anche correndo da sola?
È la dimostrazione che quando la sinistra è rispettosa, non aggressiva o settaria, vince. Da sempre la sinistra è divisa tra individualisti e chi si muove di gruppo. Ci sono due mali: quella del gregariato di gente che attende un capo che dica dove andare; oppure il settarismo della sinistra. Nel 2011 vincemmo con la “sinistra del noi”, e dovemmo scontrarci contro il settarismo. Mentre oggi mi sembra che si debba combattere il gregariato, di chi pensa che la politica sia solo ottenere una posizione che si ottiene facendo carriera. Sono due eccessi, verso i quali occorre mediare. Non è un caso che l’arancione sia un colore che si ottiene mischiando il rosso e il giallo. Non è rosso comunista e giallo liberale. E’ un equilibrio, che negli anni di Pisapia sindaco siamo riusciti a trovare. Un giusto mix tra pragmatismo e idealismo, senza gregariato e settarismo.