Perchè questo articolo potrebbe interessarti? Si sono da poco concluse le elezioni di medio termine negli Stati Uniti. Anche se il risultato definitivo arriverà solo dopo il ballottaggio in Georgia il 6 dicembre, ci sono risultati sorprendenti. In Italia però abbiamo la tendenza a leggere solo aspetti marginali e/o folkloristici del voto oltreoceano. Come ad esempio le origini italiane dei politici americani. Prendiamo ad esempio il caso dell’ultimo esponente di questa lunga schiera, Ron DeSantis. Essere italoamericani non significa fare gli interessi del nostro paese.
Ron DeSantis, brillantemente confermato governatore della Florida e papabile candidato repubblicano alle presidenziali Usa del 2024, è solo l’ultimo di una lunga serie. I politici e gli uomini di successo che spiccano nel panorama della comunità italo-americana sono spesso rivendicati, dalle nostre parti, come punti di riferimento per il nostro stesso sistema-Paese. Spesso si dimentica un dato di fatto fondamentale: gli italo americani sono milioni, ma una lobby italiana in America non esiste. E dunque Ron DeSantis, nonostante le sue ascendenze avellinesi, non è da considerare in anticipo come un “alleato” del nostro Paese.
L’Italia è lontana dai big italo-americani
Non sarebbe la prima volta che una fascinazione del genere prende piede. Mike Pompeo, segretario di Stato di Donald Trump ed ex capo della Cia, ha più volte ricordato le sue ascendenze del Belpaese, per la precisione dell’Abruzzo La nonna materna di Pompeo, Fay Brandolino, era figlia di Giuseppe Brandolino e Carmela Sanelli che emigrarono negli USA da Caramanico Terme, presso Pescara; i suoi bisnonni paterni Carlo Pompeo e Gemma Pacella avevano casa a Pacentro (Aquila) prima di emigrare in USA tra il 1899 e il 1900.
Questo non ha impedito a Pompeo di essere un fiero sostenitore dei dazi trumpiani, che colpivano al cuore anche l’industria italiana. E di fustigare a più riprese l’Italia durante la fase di adesione del governo di Giuseppe Conte alla Via della Seta Cinese nel 2019.
Pelosi e i dem non fanno i nostri interessi
DeSantis, su questi temi, ha posizioni molto simili al nuovo mainstream conservatore. Quasi certamente non c’è da aspettarsi alcuna inversione di rotta. Viene spesso presentata come un’amica dell’Italia anche Nancy Pelosi. Questo per il solo fatto che la speaker democratica della Camera ha nella genealogia origini molisane. In realtà, Pelosi è molto centrata sulla visione americana del mondo. Alle posizioni progressiste radicali in campo interno, la speaker contrappone una posizione da liberal interventista in politica estera; che è decisamente inconciliabile con qualsiasi linea guida di interesse nazionale italiano.
Per non parlare di Joe Manchin III, il cui cognome altro non è che una storpiatura di “Mancini”. Il senatore democratico ma iper-conservatore della West Virginia poco tributa alle sue origini; se non l’iscrizione alla bipartisan Italian-American Congressional Delegation (Iacd).
Scalia e LaPalombara, le eccezioni fuori dalla politica
Pochi, e sempre fuori dalla politica, i grandi italo-americani che hanno voluto leggere con attenzione il nostro Paese. Primo fra tutti l’indimenticato giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, di origine siciliana. Poco prima di morire, nel 2016, in un viaggio in Italia lanciò un messaggio contro il giustizialismo. “Perché mai dei giudici non eletti, degli studiosi del diritto, dovrebbero avere una visione speciale su come dovrebbe essere il mondo? Chi mai desidera un paese guidato da giudici ed esperti di diritto? Se la Costituzione va emendata, lo decida il popolo. Questa è la democrazia”, concluse, dimostrando di aver centrato il punto sul conflitto tra politica e magistratura.
Un altro grande lettore della nostra situazione interna è Joseph LaPalombara, 97enne politologo di Yale. LaPalombara, originario di una famiglia italiana emigrata a Chicago, è un osservatorio privilegiato. Espressione di quel mondo intellettuale ed accademico organico al Partito Democratico, da lui sostenuto ininterrottamente fin dalla gioventù, e che all’Università di Yale è maggioritario. Il politologo ha una conoscenza diretta delle istituzioni e delle dinamiche del nostro Paese, che conosce a menadito. E’ uno dei pochissimi analisti di spessore sul piano internazionale che, forse complici le origini, ha saputo interpretare i complessi meccanismi che regolano gli equilibri di potere italiani. Da Cossiga, passando per D’Alema, si è sempre approcciato con la postura del consigliere e del tutore dei rapporti transatlantici, non dell’agente d’influenza diretto.
Le lobby da cui l’Italia dovrebbe prendere esempio
Scalia e LaPalombara hanno mostrato negli anni l’empatia americana per l’Italia. Ma non sono sufficienti a coinvolgere gruppi di interesse e pressione. Gli interessi di Italia e America non convergono su molti dossier, specialmente economici. A Roma manca, cioè, una capacità di lobbying paragonabile a quella che riescono a fare pochi Paesi a Washington: Israele e India più di tutti, seguiti da Giappone, Corea del Sud, Turchia. Stati – questi – che sfruttano i deputati di assonante appartenenza etnica, le imprese e i think tank per promuovere la propria agenda a Washington. In Italia, peccando di provincialismo, non si lavora sul finanziamento della nostra lobby negli Usa. Si continua al massimo a fare tiepidi applausi ai “nipoti” di turno della nostra nazione giunti al successo oltre Atlantico. Senza ricordare che nella stragrande maggioranza dei casi questo non sposterà di una virgola l’interesse nazionale.