Perché questo articolo potrebbe interessarti? Mentre Matteo Renzi ha legato il suo futuro politico alla riforma costituzionale da lui varata nel 2016, bocciata in seguito da un referendum, Giorgia Meloni ha dichiarato di non voler lasciare il governo in caso di mancata approvazione del premierato. Una differenza importante nel comportamento dei due leader politici: “Meloni – ha dichiarato a True News il politologo Lorenzo Castellani – non vuole ripetere l’azzardo di Renzi”. Anche perchè quella sul premierato pare una riforma presentata dalla leader di FdI quasi controvoglia…
Giorgia Meloni ha presentato la sua riforma costituzionale come “la madre di tutte le riforme” ma, al tempo stesso, ha chiaramente detto che non intende legare la durata del suo governo all’esito dell’iter che dovrebbe portare all’approvazione del premierato. Un’impostazione del tutto diversa da quella avuta da Matteo Renzi. L’ex sindaco di Firenze, in qualità di presidente del consiglio, ha subito messo in chiaro che la bocciatura della “sua” riforma, quella varata nel 2016 e poi respinta da un referendum, avrebbe significato la fine della sua esperienza a Palazzo Chigi. E così in effetti è stato.
Meloni potrebbe aver imparato quindi la lezione fornita indirettamente da uno dei suoi ultimi predecessori. Il quale peraltro è oggi l’unico leader dell’opposizione a non chiudere del tutto le porte alla riforma presentata dal centrodestra. Come dichiarato a True News dal politologo e docente Luiss Lorenzo Castellani, dietro la scelta dell’attuale presidente del consiglio c’è però anche dell’altro: “Giorgia Meloni a differenza di Renzi – ha affermato – non punta su un’azione riformista”.
La lezione che Meloni ha imparato dalla storia
Era il febbraio del 2014 quando Matteo Renzi, appena dimessosi da sindaco di Firenze e da qualche mese alla guida del Partito Democratico, ricevette dalle mani del suo predecessore Enrico Letta la campanella usata per aprire il consiglio dei ministri. Una volta entrato in carica, lo stesso Renzi ha dichiarato subito di avere, come suo principale obiettivo, una radicale trasformazione dell’impalcatura istituzionale dell’Italia.
Del resto, l’allora segretario del Pd si era presentato come “rottamatore”. La sua vena riformista abbracciava molti campi, dalla costituzione all’economia. Ma è sulla riforma costituzionale che Renzi ha giocato tutte le sue carte politiche. Promettendo davanti ai giornalisti che, in caso di mancata approvazione della sua riforma (la quale prevedeva anche la fine del bipolarismo perfetto), lui sarebbe ritornato a Firenze. Forse una provocazione, forse un eccesso di sicurezza oppure forse un semplice modo di dimostrare che per lui, prima ancora della poltrona, importava solo far avanzare le riforme.
Fatto sta che quando nel dicembre 2016 al referendum ha prevalso il No al rinnovato testo costituzionale, Renzi non ha potuto fare altro che salire al Colle e tornare davvero a Firenze (prima di rientrare nella capitale in veste di senatore nel 2018). “Legare il suo futuro politico a quella riforma – ha dichiarato Lorenzo Castellani – ha significato per Renzi la fine del suo percorso di governo all’apice della carriera politica”. Un azzardo quindi, tramutatosi in un errore.
“Meloni ha imparato questa lezione dalla storia – ha proseguito Castellani – Teme che legare il proprio governo unicamente alla riforma, possa poi comportare la fine della sua esperienza a Palazzo Chigi, come accaduto con Renzi”. Da qui dunque la sottolineatura fatta dall’attuale presidente del consiglio in diverse occasioni: in caso di intoppo parlamentare della riforma o di mancata approvazione a un eventuale referendum, il governo non sarà destinato alle dimissioni.
Una riforma presentata “controvoglia”
Basta però il precedente di Renzi per giustificare una tale posizione? Secondo Castellani, occorre valutare anche altre motivazioni: “Vede – ha proseguito ai microfoni di TrueNews – c’è un’altra importante differenza con Renzi: l’ex segretario del Pd si è presentato come riformatore, come uno che voleva modernizzare l’apparato istituzionale italiano. Meloni non ha mai professato questo obiettivo. Ha sempre sostenuto il presidenzialismo, ha promesso una riforma in tal senso, ma non ha mai legato il suo futuro politico alle riforme”.
Non solo, ma la riforma approvata nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri e già portata in parlamento è figlia di un compromesso. La leader di Fratelli d’Italia, come sottolineato da Castellani, è sostenitrice del presidenzialismo e il testo approdato al Senato prevede invece il premierato. È probabile che alcune forze del centrodestra si siano opposte all’elezione diretta del capo dello Stato. Si è così arrivati a una “forma ibrida” tra parlamentarismo e presidenzialismo.
Il premierato, in poche parole, non rappresenta la vera riforma della Meloni: “Ho l’impressione che lei stessa non ci punti molto – ha proseguito Castellani – ed è ben consapevole di non avere i numeri in parlamento per farla passare con i due terzi dei voti e che un eventuale esito referendario non sarebbe a lei favorevole”. La riforma quindi, sarebbe stata presentata solo per mantenere gli impegni presi in campagna elettorale: “Ma è stata presentata quasi controvoglia – ha aggiunto il politologo – almeno questa è la principale impressione trapelata”.
Tempi lunghi per l’approvazione del premierato
I malumori espressi da ambienti vicini a Forza Italia confermerebbero in qualche modo l’ipotesi di Castellani. Anche Marcello Pera, ex presidente del Senato, ha espresso pubblicamente più di un dubbio sulla riforma. Occorre quindi adesso capire se la maggioranza ha la volontà di serrare davvero i ranghi e arrivare quanto prima all’approvazione.
“Ci sono almeno due motivi che fanno pensare come in realtà i tempi per il via libera definitivo si allungheranno – ha osservato Castellani – in primo luogo, nel rimpallo tra Camera e Senato del testo in caso di modifiche alla riforma l’iter dovrà ricominciare da zero. In secondo luogo, occorre valutare lo stato di salute della maggioranza”.
Motivi tecnici e motivi politici fanno allora pensare a un iter lungo quasi la durata naturale della legislatura. Un po’ come accaduto nella seconda esperienza di governo di Silvio Berlusconi, quando la riforma che ha introdotto la devolution è stata approvata solo a pochi mesi dalla fine della legislatura. E, anche in quel caso, il testo è stato poi bocciato dal referendum.