Perché leggere questo articolo? Sulla Rai Prodi attacca Meloni. Ma sembra dimenticare quando i suoi alleati progressisti imperversavano in Viale Mazzini.
Romano Prodi ha recentemente attaccato Giorgia Meloni per le nomine Rai e la volontà di mettere mano al servizio televisivo pubblico. “Nessuno ha ragionato su un sistema informativo che dopo decenni di duopolio si sta trasformando in un monopolio della destra“, ha dichiarato l’ex presidente del Consiglio, ventilando il rischio autoritarismo per un governo che “mira a prendersi tutto”.
La Rai “di destra” e la fuga dei progressisti
Parole dure che oltrepassano il tono solitamente compassato del Professore. E che però devono lasciar pensare circa il nodo di fondo della questione Rai. Le scelte di Meloni, primo fra tutti il ticket ad-direttore generale tra Roberto Sergio e Giampaolo Rossi, possono non piacere, ed è legittimo. Ma su questo fronte è difficile parlare di una svolta monopolista. Big della Rai come Fabio Fazio e Luciana Litizzetto, iscrivibili all’alveo dei progressisti, hanno lasciato poco dopo il rinnovo dell’ad non per un diktat esterno, ma per seguire da professionisti la lauta opportunità garantita loro da Discovery.
Lucia Annunziata, storico volto Rai e ex presidente tra il 2003 e il 2004, ha sbattuto la porta dopo che il suo programma, Mezz’ora in più, era stato rinnovato nel primo consiglio d’amministrazione dell’era Sergio. Massimo Gramellini non sarà più in Viale Mazzini per accasarsi a La7, televisione che del resto è del suo editore sulla carta, Urbano Cairo, il cui Corriere della Sera gli affida una rubrica quotidiana in prima pagina. In panico anche Marco Damilano, a cui la Rai “draghiana” ha concesso un importante spazio su Rai2.
Nessuna epurazione
Prodi attacca, ma il centrosinistra che esce dalla Rai lo ha fatto, per ora, solo su scelta volontaria. Nessun palinsesto è stato toccato. E certamente nessuno pensa che Pino Insegno, Laura Tecce e Nunzia De Girolamo possano essere i volti di una “rivoluzione conservatrice” che, come ha scritto Luigi Mascheroni su Il Giornale, non è nell’orizzonte di una Destra che la “cultura” la pensa solo con la “c” minuscola, non in termini di egemonia.
E del resto l’affondo di Prodi è abbastanza lontano dalla realtà se pensiamo a quanto il centrosinistra abbia imperversato in Rai negli anni passati.
Quando il centrosinistra occupava la Rai
Sul Professore – va detto – le ombre del passato pesano meno. Nel 2006, eletto premier, il Professore rinunciò ad azzerare il CdA Rai nominato dal governo Berlusconi III e per l’intero suo mandato mantenne al suo posto il presidente in carica dal 2005. Rispondente al nome di Claudio Petruccioli, ex deputato e senatore…del Partito Comunista Italiano.
Massimo D’Alema, che di quel governo era Ministro degli Esteri, con un velo di perfidia disse: “Sulla Rai siamo stati troppo buoni“, anche se a livello di occupazione di poltrone i Democratici di Sinistra e i loro alleati non furono certo parchi. Spingendo per la sostituzione di Clemente Minun con Gianni Riotta, “amerikano” della Sinistra antiberlusconiana, al Tg1. A cui si aggiunse la conferma di Antonio Di Bella al Tg3, mentre solo Mauro Mazza restava in “quota” centrodestra al Tg2. Dieci anni prima, il “nominato” era stato Marcello Sorgi, promosso direttore del Tg1 dopo la vittoria elettorale di Prodi.
La bulimia di potere del Pd in Rai dopo l’era Prodi
Con l’era di Mario Monti e i successivi governi di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni poi il centrosinistra post-prodiano tentò di “prendersi tutto”. Nel 2012 e nel 2015 Anna Maria Tarantola e Monica Maggioni furono indicate come presidentesse proveniendo, rispettivamente, dall’entourage del banchiere d’area Pd e futuro Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni e dalla cordata progressista dei giornalisti Rai. Direttori generali furono Antonio Campo dell’Orto, scelto da Renzi, e Mario Orfeo, vicinissimo al mondo di Ezio Mauro e altri big del giornalismo progressista.
Notevole la levata di scudi della Sinistra quando, nel 2018, a essere scelto come presidente fu Marcello Foa, in un ruolo totalmente cerimoniale dopo la riforma voluta da Renzi che ampliava i poteri dell’ad. Su Foa piovve l’accusa di venire da una tradizione politica di destra e addirittura l’onta del complottismo. Certamente la sua sostituzione con la progressista Marinella Soldi nel 2021 non fu vista da Prodi come una sorta di “occupazione”.
Il Pd non dà più le carte. E reagisce in maniera scomposta
La realtà dei fatti è che questa tornata di nomine Rai ha visto Giuseppe Conte spiazzare il Partito Democratico e le sue cordate. Gli opinionisti progressisti, i giornalisti prodiani ieri, renziani poi e da ultimo draghiani e il loro sistema hanno visto tramontare la fase della loro centralità. E invece di reagire con l’ordinarietà del confronto democratico, sono entrati in gamba tesa su Meloni e le sue scelte.
Una nota decisamente problematica. Che ci ricorda quanto ammoniva già trent’anni fa su Viale Mazzini un big della stessa sinistra a lungo lottizzatrice, Giuliano Amato. “La Rai – diceva Amato – deve smettere di essere un governatorato politico-romano” e deve pensare innanzitutto a fare televisione e informazione. In passato non hanno pagato né gli editti bulgari alla Silvio Berlusconi né la ricerca di egemonie da parte del centrosinistra.
Il pubblico tende a percepire il faziosismo e a respingerlo. Un monito anche per Meloni. La cui strategia è sicuramente di medio-piccolo cabotaggio, visti i nomi (a parte l’esperto Rossi) su cui la “nuova” Rai punterà. Validi al massimo, per la loro esperienza, per un’egemonia sub-culturale capace di pensare la Rai come una continuazione di Pomeriggio Cinque con altri mezzi. Se questo è l’autoritarismo temuto da Prodi, è ben poca cosa.