Papa Francesco ha fatto molto parlare di sé di recente dopo la pubblicazione dell’estratto di intervista alla Radiotelevisione della Svizzera Italiana (Rsi) in cui ha invitato l’Ucraina a negoziare la fine della guerra con la Russia. “Il negoziato non è mai una resa”, ha detto il Santo Padre, sancendo una svolta netta nella proiezione diplomatica del Vaticano.
Le parole del Papa sembrano mostrare che Francesco ha ormai pienamente in mano nelle sue redini il controllo delle politiche negoziali della Chiesa cattolica, in un mutamento che sembra ridimensionare sia la Segreteria di Stato di Pietro Parolin che in un certo senso anche Matteo Zuppi, cardinale arcivescovo di Bologna nominato dal Papa nel 2023 inviato personale per negoziare con le potenze coinvolte nella crisi ucraina.
La superficialità degli attacchi al Papa
Si attacca il Papa per aver preso una posizione netta a favore della pace soprattutto da quel fronte politico che, dalla destra liberale al centrosinistra liberaldemocratico, sembra vedere nella complessa partita geopolitica della crisi ucraina una questione di civiltà. Quasi che la legittima e comprensibile resistenza di Kiev all’invasione russa fosse una battaglia di civiltà fine a sé stessa, da perseguire col fine non tanto di difendere l’Ucraina quanto di abbattere la Russia. Tutto questo indipendentemente dal prezzo umano e materiale del conflitto.
Francesco invita l’Ucraina a negoziare prima che la situazione volga eccessivamente a suo sfavore. In quest’ottica, la sua posizione scontenta coloro che vedono nel Vaticano e nel Papa i cappellani dell’Occidente, ma non chi da tempo coglie nelle sfumature della diplomazia à la Bergoglio i connotati di un’agenda politica e teologica che non pensa con chiavi di lettura occidentali.
Papa Francesco, da leader del mondo cattolico, è conscio delle ansie per la guerra che uniscono credenti e vertici episcopali in tutto il mondo. Ma da argentino capisce anche la prospettiva di buona parte del pianeta, che vede al conflitto come a un regolamento di conti interno al “primo mondo” e mal tollera il fatto che sia destinato a plasmare le sorti economiche e geopolitiche del globo senza attinenza all’interesse diretto di molti Stati.
Essere pontieri
Nella prospettiva geopolitica del pontificato, dunque, la mediazione e la negoziazione acquisiscono senso su più piani. Innanzitutto su quello politico, dato che il Vaticano da tempo tiene molto all’idea di costruire, in campo economico, sociale, culturale e diplomatico, un sistema multilaterale e multipolare. In secondo luogo, in tema di rapporti tra le confessioni cristiane, perché per il Vaticano la guerra russo-ucraina è soprattutto una ferita sanguinante nella Res Publica Christianorum europea. Infine, come modello per altre crisi in cui la Chiesa può giocare la sua partita.
In sostanza, la focalizzazione è sul lungo periodo. Fermare il sangue in Ucraina oggi per poter tornare a creare spazi di concordia e dialogo domani. Quelli in cui la Chiesa può giocare un ruolo attivo e fattivo nel mondo. Nella logica del Papa, la prospettiva teologica deve invitare ad essere nel mondo, ma non del mondo. L’occhio è sul lungo periodo. Restano dubbi se il mondo saprà accogliere o meno la volontà pontiera del Santo Padre. Un ponte, per esistere, deve connettere punti che accettano le distanze reciproche. Russia e Ucraina non sembrano al momento esserlo. Ma nemmeno Russia e Occidente. Siamo a spes contra spem. Ma è da semi di speranza che germoglia la pace. Il rischio per il Papa è che la disintermediazione concentri unicamente sulla sua figura il dialogo. Mentre anche chi, come Zuppi e Parolin, si è dimostrato capace di essere della partita forse avrebbe la necessità di essere coinvolto.