La partita per la successione di Sergio Mattarella al Quirinale la giocheranno le segreterie dei partiti, ma a determinarla saranno ancora una volta i franchi tiratori. I “cecchini” che nel segreto dell’urna impallinano i candidati ufficiali lo hanno sempre fatto, da quando in Italia è stato eletto il primo Capo dello Stato nel 1948. Solo in due casi non è successo, per l’elezione di Azeglio Ciampi nel 1999 e per quella di Giorgio Napolitano (la prima del suo doppio mandato) nel 2006: sono state le uniche votazioni per il Presidente della Repubblica in cui i franchi tiratori hanno deposto le armi e i candidati al Colle sono stati eletti al primo scrutinio.
Quirinale, una corsa in cui si parte papa e si esce cardinale
Perché dalla corsa al Quirinale si parte papa e quasi sempre si esce cardinale, con la conseguenza che qualche “chierico” è indotto a spogliarsi della tonaca, come accadde a Pierluigi Bersani, costretto a dimettersi da segretario del Partito democratico dopo che la candidatura di Romano Prodi, nel 2013, fu affossata dagli arcinoti 101 franchi tiratori (il diretto interessato ne calcola ancora oggi 120).
Elezioni del presidente, un romanzo ricco di intrighi
La storia delle elezioni dell’inquilino dell’ex Palazzo dei Papi (alcuni ritengono che sul palazzo imperversi la maledizione del suo ultimo inquilino, Pio IX, scagliata sui Savoia) è un romanzo la cui trama è ricca di intrighi e tradimenti. E’ l’occasione che hanno ignoti parlamentari almeno per una volta di dimenticare il loro stato di peones e votare diversamente dalle indicazioni fornite dai leader delle loro formazioni che hanno stretto accordi sui nomi sui quali far convergere il voto.
Per rimanere in metafora letteraria, il finale del romanzo rivelerà solo il misfatto, ma quasi mai chi lo ha commesso. Ancora oggi, infatti, di quei famosi 101 pugnalatori di Prodi conosciamo le gesta, ma non i nomi e i volti, se non quelli che si possono ricavare da congetture. Non uno solo di loro ha dichiarato, fino ad oggi, di essere stato tra coloro che bloccarono Prodi. E sono passati quasi nove anni.
Il Cynar offerto a Mario Scelba per digerire il boccone amaro
Non è stato sempre così in passato, quando affondare la candidatura di un esponente, magari dello stesso partito, ma di una diversa corrente, veniva rivendicato come un successo. E la sconfitta di un papabile bocciato dalle Camere in seduta congiunta poteva anche vedere arrivare sul banco del suo sponsor un bicchiere di Cynar per digerire l’amaro boccone ingurgitato. Successe a Mario Scelba nel 1955, quando a essere eletto fu Giovanni Gronchi. A offrire l’amaro contro il logorio della vita moderna all’allora ministro dell’Interno (si sarebbe dimesso due mesi dopo) furono i comunisti Gian Carlo Pajetta e Velio Spano.
Scelba, al Viminale quasi ininterrottamente dal 1947, era stato, insieme al segretario della Democrazia cristiana Amintore Fanfani lo sponsor della candidatura al Quirinale di Cesare Merzagora, presidente del Senato, eletto come indipendente nelle liste scudocrociate.
L’affossamento di Merzagora: “Mi hanno giocato come un bambino”
Il 28 aprile 1955, alla prima chiama, su di lui convergono solo 228 voti, nonostante i democristiani presenti siano 380. Mancano all’appello 152 preferenze. Il fuoco amico parte dalla sinistra Dc, capeggiata dal presidente della Camera Giovanni Gronchi, con l’apporto decisivo della corrente di destra del partito, che vede tra i suoi leader Giulio Andreotti. Negli scrutini successivi i consensi su Merzagora continuano a calare, fino a quando al quarto scrutinio, con 658 voti, viene eletto Presidente proprio Gronchi. Commenta Merzagora: “Mi sono fatto giocare come un bambino a mosca cieca”.
Non era la prima volta che i franchi tiratori (il termine, secondo la Treccani, viene dal francese franc-tireur e sta a indicare i piccoli gruppi di combattenti francesi che colpivano con azioni di disturbo l’esercito prussiano nella guerra franco-prussiana del 1870-71) entravano in azione. Era già successo sette anni prima.
Quando nel 1948 fu impallinato Carlo Sforza
A farne le spese allora era stato il ministro degli Esteri del governo De Gasperi, Carlo Sforza, indicato dal segretario della Dc. A impallinarlo quella parte della stessa Dc che faceva riferimento a Giorgio La Pira, Amintore Fanfani e Giuseppe Dossetti, che non vedeva di buon occhio il conte, considerato un laico libertino e troppo atlantista. De Gasperi era stato costretto a scendere a patti con loro dopo che Sforza, che sulla carta aveva la vittoria in tasca, raccolse solo 353 voti, meno di quelli confluiti sul presidente uscente Enrico De Nicola, votato dalle sinistre. Anche quando dal quarto scrutinio si vota a maggioranza semplice, nella conta finale a Sforza mancano 98 voti per essere eletto. Nel frattempo erano salite le quotazioni di Luigi Einaudi che nella stessa votazione viene eletto Capo dello Stato, pur essendosi schierato a favore della monarchia nel referendum di due anni prima, come lui stesso ricorderà nel suo discorso di insediamento.
L’estenuante nomina di Antonio Segni nel 1962
E’ comunque con l’elezione del Capo dello Stato del 1962, visti i precedenti, che si affinano le armi per provare ad arginare il tradimento nelle urne. Nel maggio di quell’anno, il nuovo segretario della Dc Aldo Moro, che come vedremo, sarà successivamente vittima di veti incrociati e franchi tiratori, propone per il Quirinale Antonio Segni. Sostenuta dai dorotei, la sua candidatura non piace alla corrente guidata da Amintore Fanfani e alla sinistra Dc. Segni ce la farà soltanto al IX scrutinio, dopo che i dorotei, per evitare agguati, si inventano uno stratagemma. Ogni grande elettore dovrà ritirare due schede, una con il nome del candidato ufficiale, uno con quello di una candidatura di disturbo. All’uscita dall’aula devono dimostrare, sottoponendosi a una specie di perquisizione di alcuni compagni di partito, di aver infilato nell’urna quella col nome giusto.
Saragat e Leone: “Il pugnale, i veleni e i franchi tiratori”
La guerra di Fanfani a Moro prosegue anche nel dicembre 1964, quando Parlamento e delegati regionali sono chiamati ad eleggere il successore di Segni, dimessosi per motivi di salute. Il giurista pugliese, che è alla sua prima esperienza da presidente del Consiglio, vuol fare convergere i nomi sul socialdemocratico Giuseppe Saragat (il 4 novembre 1963 è nato il primo governo di centrosinistra in Italia). Fanfani cerca invece di convogliare i voti su Giovanni Leone. Un nome che per Moro non deve assolutamente passare, tanto che convoca Carlo Donat Cattin, leader della corrente “Forze nuove”, perché si muova per trovare il modo. L’esponente piemontese della Dc risponde che conosce tre soli metodi perché il diktat di Moro sia rispettato: “Il pugnale, i veleni e i franchi tiratori”. Al sedicesimo scrutinio, con le schede bianche che arrivano a un numero record (368) Leone annuncia il ritiro della propria candidatura. Il segretario del partito Mariano Rumor si arrende, ad essere eletto sarà Giuseppe Saragat, nonostante l’azione di disturbo di Fanfani sul quale convergono alcuni voti. Per Saragat voteranno anche le sinistre e la destra.
Fanfani: chi di cecchini ferisce…
Sette anni dopo, nel 1971, ad essere affossato dai franchi tiratori sarà direttamente Fanfani, ritenuto da tutti la longa manus dei cecchini nelle precedenti elezioni. Gli assicurano ufficialmente il loro appoggio Andreotti, Forlani e De Mita, ma già al primo scrutinio l’esponente scudocrociato aretino si vede sorpassare nelle preferenze dal candidato delle sinistre, il socialista Francesco De Martino (384 voti per il primo, 397 per il secondo). Mancano alla conta 36 voti, considerando anche che nel segreto dell’urna un grande elettore scrive “Nano maledetto, non sarai mai eletto”.
A tramare questa volta è Aldo Moro, che mira al Quirinale grazie a un patto segreto con le sinistre disposte ad aiutarlo nella sua scalata al Colle, mentre è esplicito il leader del Partito Repubblicano Ugo La Malfa, che annuncia di “voler rompere i garretti ai cavalli di razza della Dc”. Fanfani si avvicina alla elezione all’undicesimo scrutinio, quando prende 393 voti, sette in meno di quelli necessari e decide di ritirare la candidatura. A spezzare i suoi sogni di Presidente della Repubblica (verrà eletto Giovanni Leone con 518 voti solo al ventitresimo scrutinio il 28 dicembre) sono, assieme ai morotei, la corrente di destra andreottiana e quella di Forze nuove (Donat-Cattin).
L’anno di Tangentopoli: il Quirinale diventa una fossa dei leoni
Ma è il 1992, in un’Italia travolta dallo scandalo di Tangentopoli, che la battaglia per il Quirinale si rivela una fossa dei leoni. I protagonisti della vita politica italiana sono ancora gli stessi di sempre e quello che accade sembra essere solo il nuovo capitolo di una lunga saga. La lotta è ancora tutta interna alla Democrazia cristiana. A sfidarsi, a colpi di complotti, sono ancora una volta Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. Uno è segretario del partito, l’altro è presidente del Consiglio. Uno è “portato” da Antonio Gava e Pierferdinando Casini, l’altro è il candidato di Paolo Cirino Pomicino e di Antonio Gava.
Dopo i primi scrutini (il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro per la prima volta ha fatto montare il “catafalco” che nasconde chi esprime il suo voto alla vista degli altri grandi elettori), Forlani diventa il solo candidato ufficiale. Per evitare imboscate viene data l’istruzione di scrivere il suo nome in tutte le combinazioni possibili (Forlani Arnaldo, on. Forlani, Arnaldo onorevole Forlani…). Viene comunque impallinato per soli 39 voti al quinto scrutinio: l’ordine di “premere il grilletto” arriva da Andreotti, De Mita e Mastella. Ma i franchi tiratori sono anche sui banchi socialisti, tra gli avversari interni di Bettino Craxi. Il 17 maggio Forlani ritira la propria candidatura. Ma non ha miglior sorte il candidato che sostituisce, il socialista Giuliano Vassalli. Boccone troppo ghiotto per la vendetta dei dorotei, che fanno mancare al nuovo nome indicato dal pentapartito, ben 180 voti.
L’elezione del presidente della Repubblica sarà segnata pochi giorni dopo dalla strage di Capaci, dove muoiono uccisi dalla mafia Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti della sua scorta. Ventiquattro ore dopo viene eletto Presidente della Republica Oscar Luigi Scalfaro.
L’affossamento di Prodi e la rielezione di Napolitano
I franchi tiratori torneranno nel 2013 con i famosi 101 che affossano i sogni presidenziali di Romano Prodi. Il primo nome proposto era quello di Franco Marini, ex segretario generale della Cisl ed ex presidente del Senato, concordato tra Bersani e Berlusconi. Nome bocciato da Matteo Renzi, allora sindaco di Firenze, che propone subito Prodi, anche in chiave anti-D’Alema. I grillini fanno invece il nome di Stefano Rodotà. A essere rieletto, primo caso nella storia della Repubblica, sarà Giorgio Napolitano.
Le elezioni per il Quirinale: rappresentazione pura della politica
Come ha detto Filippo Ceccarelli, uno dei migliori giornalisti politici italiani, in un recente convegno alla Lumsa, “le elezioni per il Quirinale sono una gara di furbizia politica. Meglio ancora, sono la rappresentazione della politica stessa: un continuo ricorso a cavalli di Troia per giungere al proprio obiettivo”. Dal 24 gennaio capiremo chi sono gli assedianti, chi gli assediati, chi il novello Ulisse.